Monopoli Pop

La luce verde di Gatsby, cinque mosche di tweed e un quadro di Roy Lichtenstein chiamato ‘vita’.

Potete tranquillamente mettere da parte quel sorrisetto. Le folate di revivalismo Stones per gli sbandierati quarant’anni di carriera qui non c’entrano affatto (se non, almeno, marginalmente). Reputo del tutto inutile ribadire che “Forty Licks” è un’operazione spilla-soldi troppo raffazzonata per poter raggiungere un target diverso dai destinatari di regali di natale o di compleanno e che, vuoi magari solo per un compiaciuto atteggiamento da annoiati dalla vita, noi di Kathodik speriamo davvero di rivolgerci a music-addicts di qualche altro tipo…Per quanto riguarda la questione del real-time celebrativo poi, inutile dire che ci stancheremmo ancora prima di cominciare; potrete infatti constatare da soli come sarà inevitabilmente ripetuta nei prossimi due o tre anni: a cominciare dall’anniversario per l’incisione di “Come on” loro primo 45 giri nel 1963… per proseguire poi con l’anniversario del primo full length intitolato semplicemente “The Rolling Stones” nel ’64… e così via fino ad esaurimento borsellino… Per i consumatori l’esaurimento pazienza in questi casi è ovviamente ancora di là da venire … (e il pop in fondo è anche questo)… ma per chi scrive, la pruriginosa tendenza a ‘sbottare’ si fa irresistibile proprio come quella di chi cede alla tentazione di quei dischetti luccicanti, rimasterizzati, magari in splendida confezione digipak (e considerate che le due figure appena descritte potrebbero anche coincidere…)

Ma quante parole ho già speso per un concetto tanto noto come appunto l’”inutilità”….

Veniamo a noi e a quest’oggettino cartaceo di indubbio valore che l’evergreen natalizio di cui sopra mi ha fatto giungere tra le mani (presente quando vi regalano qualcosa e magari sbagliando mira di un pelino nelle intenzioni, colpiscono invece mortalmente al cuore?).

Nel dischiudere lo scrigno di meraviglie che le righe racchiudono, direi di iniziare con una semplice considerazione: non è un caso che nella didascalia in home page di quest’articolo sia stata riportata la copertina dell’edizione originale rispetto a quella nostrana. Il motivo è tutto in quel minuscolo quanto prezioso sottotitolo: “A Memoir of London in the ‘60s”, che, anche per chi non conosce un minimo di inglese rappresenta comunque, anche così… ‘a occhio’, qualcosa di ben diverso dall’italiana versione: “La verità sui Rolling Stones raccontata dal loro pigmalione”. Ahhhh…. Meraviglie del marketing….Con buona pace degli italianisti intransigenti, mi permetto di far notare che la dicitura inglese è, oltre che di meno d’effetto… ahimè (delitto!) purtroppo sincera. Quello che ogni rocker convinto di aver acquistato il presunto dossier xxx della band di Jagger e Richards si ritroverebbe tra le mani, sarebbe invece null’altro che uno splendido, magnifico, ineguagliabile manuale di cultura pop anni 60. Talmente ricco e suggestivo da far venire le lacrime dalla commozione…Gli Stones arrivano infatti solo molto tardi nella narrazione di Andrew Loog Oldham (loro primo esuberante manager) e per quando si fanno vivi, sono purtroppo poco più che una sbiadita appendice o al massimo una nota completista all’interno di un mondo sfavillante e già autosufficiente. La reale protagonista del libro è la città di Londra del passaggio dai tardi ’50 ai primi ’60 (considerate che il libro finisce con la pubblicazione del primo Lp della band), e viene da innamorarsene perdutamente, molto più di quanto mi è successo leggendo altri pur validissimi studi ad essa dedicati come “La Londra dei Beatles” di Paola Colaiacomo (la cui lettura consiglio comunque ad occhi chiusi). L’asso nella manica del libro in questione è però proprio quel filtro raggiante della narrazione in prima persona di Andrew, teenager ossessionato dal successo e dalle (più devianti che smaglianti) promesse del mondo dello spettacolo. Tutto il racconto può essere considerato l’esatta radiografia di cosa poteva provocare a soggetti ipersensibili al sensazionalismo immaginifico (creato dagli allora nuovissimi media), l’esposizione stroboscopica a una rivoluzione globale del costume, dei modi di vita e di fruizione artistica come quella che si stava realizzando nei più diversi settori del’industria popolare inglese (confort, abbigliamento e … perché no? Arte). L’Inghilterra tutta, ma Londra in particolare, appare del tutto priva all’epoca di propri modelli ‘popular’ ben identificabili, eppure viene dettagliatamente raffigurato un fermento sotterraneo che di lì a pco minerà alla base le fondamenta dello sterile conformismo American oriented. E’ come se un piccolo esercito underground avesse cominciato ad attaccare la figura dell’adolescente su tutti i fronti: cosa accade insomma quando è Mary Quant a consigliarti come vestire, Vidal Sassoon a rimodellare i tuoi capelli, Mick Jagger a smuovere i tuoi ormoni dal grammofono dei tuoi? Gli squassi neurali per Andrew arrivavano da tutte le parti in un’epoca in cui “vedere un teddy boy per strada era più interessante che andare a un concerto rhythm’n blues” e quando, come egli stesso ripete più volte “l’impressione era che la vita non finisse mai sul pavimento della sala di montaggio”.

E’ da queste premesse che sfilano in una lunga e interminabile carrellata-valanga: icone del cinema (Laurence Harvey, Burt lancaster) della moda (Vidal Sassoon, Alexander Plunkett) della produzione musicale (Kenneth Hume, Lionel Bart, Phil Spector), del rock della prima ora (Johnnie Ray, Gene Vincent, Marty Wilde e tutto il circuito del 2Is di Larry Parnes), molte delle quali contribuiscono con preziosissime dichiarazioni in prima persona sia su Andrew che sui più diversi aspetti dell’epoca. Dal punto di vista strettamente musicale le dichiarazioni fanno ben emergere come la sudditanza all’importazione americana di stereotipi (cui gente come Cliff Richards o Billy Fury tentarono in qualche modo di sottrarsi), fosse in realtà ancora molto forte e l’indotto dell’immaginario Elvis-iano (nonostante la pausa della divisa militare indossata dal nostro nel 1960), la facesse ovviamente ancora da padrone nel periodo pre-Beatles. E’ proprio in contrasto con questa generale acquiescenza ai modelli rock transatlantici che acquista invece risalto la figura di Oldham e di quanti come lui avevano appunto intravisto le giuste potenzialità di un quadro complessivo (visibile solo ai più lungimiranti ma in definitiva già pronto) per il quale gli Stones rappresentavano niente più che il tassello mancante. L’autobiografia di Oldham mostra da questo punto di vista tutta la globalità del fenomeno sociologico che riduttivamente di solito indichiamo come ‘musica rock’. Alcune sue affermazioni sono illuminanti al riguardo: “Molto prima che il 1963 cambiasse per sempre la storia della musica, l’Inghilterra aveva già un business pop: la moda. Il nuovo imprenditore del rock prendeva queste novità e le applicava al piccolo mondo della musica, dove sembravano innovative. Il lavoro da Quant fu un allenamento importante […] la moda sarebbe diventata musica. E dunque avevo un vantaggio sui miei coetanei…” Basterebbe mettere a confronto affermazioni come queste col ‘senno di poi’ che Paul Weller descriverà più tardi in “The Sixties, The Total Look” per rendersi conto della complessa rete di cognizioni extramusicali con cui Oldham dovette fare i conti: “Il periodo compreso tra il ’65 e il ’66 rimane comunque quello della migliore produzione musicale e del più valido stile estetico. Il modernismo aveva già avuto un forte impatto sulle bands di allora , che copiavano il look dei kids (e non viceversa)”.

Rispetto a questa impostazione d’analisi multilivello, poliedrica e scinitllante, la parte prettamente dedicata ai Rolling Stones si rivela invece poi più ordinariamente (agio-) biografica, piena del sussiegoso chiacchiericcio aneddotico tipico appunto del revival di turno. Il piglio infantile con cui i rapporti con gli Stones vengono descritti (la scena dell’incontro è al limite del ridicolo) è in realtà l’unico elemento in grado di salvare una narrazione che zooma soltanto su avvenimenti in definitiva macroscopicamente noti (Oldham che chiude in casa Jagger e Richards promettendo di aprire solo in cambio della scrittura della loro prima canzone, Oldham come l’ideatore lato ‘delinquenziale’ degli Stones nonché dello slogan “Would you let your daughter come with a Rolling Stone?” cui seguì inevitabile censura per l’ambiguità del verbo “to come” ecc. ecc.). Che i Beatles abbiano avuto una strada più facile da percorrere per il fatto di essere i primi a navigare su di un fiume in piena e che gli Stones abbiano invece dovuto giocare sempre in controbattuta risalendo strenuamente quel fiume come salmoni è storia ormai nota (il volumetto “Beatles contro Rolling Stones” di Georg Diez è illuminante al riguardo) ed è per questo che le luci vengano puntate da Oldham proprio sui ‘meccanismi di scena’ più che sulla rappresentazione teatrale in corso. Il vero punto di forza del libro insomma è proprio il dischiudere ai lettori tutti i fantasiosi retroscena e tutto il processo di apprendimento delle strategie di manipolazione di massa con cui egli dovette confrontarsi proprio nel momento in cui le masse (intese come destinatari ‘mediali’) si stavano creando per la prima volta. Alla nascente civiltà dell’apparenza, Oldham sembra opporre un’innocente ricerca della fama che lo assimila in tutto e per tutto a una sorta di portavoce europeo dell’’American Dream’. Un certo equilibrio tra dimensione sognante e piglio pragmatico (ricompra i dischi degli Stones dopo averli pubblicati per farli finire in classifica, orchestra l’invasione del palco da parte di ragazzine urlanti quando sono presenti i fotografi del NME ecc) completa poi il tutto, denotando una perfetta commistione di stile e intraprendenza, caratteristiche proprie di chi ha saputo fondere ambizione senza scrupoli e meriti reali in modo tale da renderli meravigliosamente indistinguibili.

Per quanto riguarda il lato etico del tutto, da parte mia qualsiasi remota possibilità di giudizio morale sull’autore del libro è definitivamente caduta proprio l’altro giorno, quando la mia ragazza, osservando la copertina di “Out of Our Heads” ha commentato: “Ma chi era quello bello nei Rolling Stones?”

Inequivocabile conferma del fatto che Oldham aveva fatto davvero… un gran bel lavoro.

 

Mauro Carassai