SONAR

12,13,14/06/2003, BARCELLONA

Da tempo desideravo andare al Sonar. Qualche giorno di ferie da smaltire, prezzi dei voli allettanti e il gioco è fatto. Nessuno vuole venire a farmi compagnia? No problem, e poi anche il solo piacere di visitare la fascinosa città di Gaudì vale il viaggio. Arrivato a Barcellona, superate alcune piccole difficoltà organizzative (ma come cavolo si fa a non prendere nota dell’indirizzo in cui si trova l’Hotel prenotato on-line?) m’incammino alla ricerca del MACBA e del CCCB, rispettivamente il museo e il centro di cultura contemporanea della città caratterizzati da un’architettura minimalista all’insegna del bianco totale, in cui si svolge ogni anno la tre giorni del festival. Entrambi sono piacevolmente locati nel centro della città a due passi dalla famosa Rambla e da Plaça de Catalunya, nell’antico, un po’ fatiscente ma anche per questo molto intrigante, quartiere Ravel. A onor di cronaca l’impatto non è dei migliori, anzi, visto che appena arrivato noto subito una spaventosa fiumana umana che attende l’acquisto del biglietto sotto un sole impietoso e senza la minima possibilità di riparo. Tuttavia m’illudo di riuscire a risparmiarmi una tale tortura visto che sul sito del Sonar si parlava dell’esistenza di macchinette di distribuzione automatica per chi, come me, aveva prenotato i biglietti in anticipo. Ma si tratta appunto di un illusione, visto che non riesco a scoprirne l’esistenza neanche rivolgendomi al personale dell’ufficio informazioni e quindi mi rassegno a patire assieme agli altri, il mio sudore assieme al loro. Due ore circa di attesa senza un sorso di acqua, c’è una sorta di bar ma il tizio ha solo birra calda, assordato da una terribile techno che proviene dal SonarDome e che già mi fa venire voglia di scappare via, e riesco ad impossessarmi dei biglietti e ad entrare. Per fortuna non sempre il buon (brutto) giorno si vede dal mattino e da qua in poi le cose andranno molto meglio. Esaurite queste note introduttive personali posso parlare dell’aspetto prettamente musicale del Sonar che si divide in due eventi che coprono l’intera giornata (24 h), Sonar By Day e Sonar By Night, dei quali il secondo è, a mio avviso, abbastanza trascurabile per diversi motivi (musica, locazione, raggiungibilità) e che quindi ho quasi totalmente disertato. Impossibile comunque seguire per intero il festival, anche nella sola versione giornaliera, data l’enorme mole di concerti in esecuzione contemporanea in aree diverse (SonarVillage, SonarComplex, SonarDome, EscenarioHall, SonarLab e varie appendici espositive, workshops, installazioni, rassegne cinematografiche e altro ancora), ed è un vero peccato anche perché si ha la perenne, spiacevole sensazione di trovarsi nel posto sbagliato.

Sole. James Holland, aka Sole apre lo showcase dell’etichetta californiana Anticon, di cui l’uomo è tra i fondatori, che è riuscita a rigenerare il rap dalle fondamenta trasformandolo in fenomeno di esponenti middle-class bianchi, figli scazzati di MTV@ e MacDonald @. Individui che riciclando tutti gli scarti e le schifezze che sono stati loro buttati in faccia hanno creato un suono che può definirsi rap solo perché è rimasto qualche eco di beat disseminata qua e là  per diventare un grumo dove tutto è riciclato e rimasticato. Sole utilizza queste musiche come sfondo per le sue personali idiosincrasie e sciorina uno spettacolo coinvolgente, anche se abbastanza tradizionale, tra estetica freestyle, spoken e hardcore. Themselves. Ancora Anticon e questa volta è delirio ai massimi livelli. Dose One, l’uomo dalla voce di papero strozzato, è un vero animale live che tra movenze spastiche, smorfie, costumi di scena (scassati e trash), incita e gioca col pubblico mentre alle sue spalle Jel e Dax editano samples raccolti chissà dove. Fenomenale. Peccato non riuscire a cogliere tutti i giochi di parole (il rimando ad un certo Bush era comunque chiaro e ricorrente). Niobe. E’ l’artista venezuelana-tedesca ad aprire l’esibizione degli artisti Sonig all’interno del Sonar Complex. Accompagnata da powerbook e sporadica chitarra, Niobe produce glitch-pop assediato da un lato da atmosfere da cabaret mitteleuropeo del dopoguerra e dall’altro da calore tropicalia, inframmezzato qua e là dalla sua risata oscura…ha, ha… Quello che affascina maggiormente è l’impostazione, volutamente traballante, dove ogni cosa sembra sempre sul punto di collassare con melodie che spesso riescono a sfuggire al controllo della sua performer per ruotarle attorno come spettri beffardi. Lithops. James Werner, metà dei famosi Mouse On Mars, sacrifica parte dell’aspetto più catchy dei topi a favore del muro di suono, in un set di suoni grassi e violenti. Non malaccio ma onestamente mi aspettavo di meglio. Markus Detmer plays Staubgold. Solo un DJ set potrebbe dire qualcuno, ma quanto bello! Markus, faccia da geek, gran fumatore, overlappa e concatena musiche in gran parte provenienti dal catalogo dell’etichetta tedesca (Ambarchi, Delay, Sack Und Blumm, Ehlers..); e quando spaparanzato su una sdraio, attorniato dal pubblico happy (e qualcuno anche un po’ hippy) che sta seduto sul prato (finto) del Sonar Lab; dal fondale di suoni dubbati emerge un estratto di Faust IV, sono rapito. Tujiko Noriko. Ancora glitch-pop dalle tinte surreali avvolto nella vocina della cantantina giapponesina. Canzoni come filastrocche infantili per bambini dislessici generano un’atmosfera zuccherosamente saporita e avvolgente. Pita e Tina Frank. Eccoli qua i terroristi del suono e della manipolazione video (Tina). Powerbooks schierati l’uno contro l’altro come carri armati, non una parola al pubblico (a cui Tina volge costantemente le spalle) e atteggiamento fortemente ieratico. Partono subito bordate di digital noise a tratti quasi insostenibili, vuoi per il volume spaventoso, vuoi per l’imperturbabilità e la stasi di una performance che nulla concede se non pallottole di suono come raffiche di mitra in faccia. C’è tuttavia dietro a tutto ciò una logica (quale?) che sconvolge. Kevin Blechdom. Sale sul palco Kevin, che lasciatasi alle spalle la magnifica, effimera avventura in coppia con Blevin, si prodiga oramai nella sua carriera solista sempre all’insegna del disordine mentale e della più totale anarchia. Abbigliata stile campagnola californiana (sarebbe, please?) inizia lo show, che si svela subito essere uno dei più trascinanti del Sonar. Simpatia a mille, personalità straripante, samples che rotolano come pietre, voce sgraziata e in mezzo a tutto un’incredibile, interminabile, massacrata a sangue cover di “I Willl Always Love You”. Pubblico divertito e applaudente. Schneider TM. Elettropop, very pop, per il trio tedesco che coinvolge tutti tranne il sottoscritto. Ma è un mio problema, non loro, e devo riconoscere che molte canzoni hanno una notevole resa live (es. Reality Check). Cremaster. Dinanzi ad un SonarComplex pressoché deserto (sono le 13,00) si esibisce la coppia costituita dal chitarrista Alfredo Monteiro e dal manipolatore di electronics Ferran Farges. Chitarra strapazzata, e mai suonata, con attrezzi di ogni genere (archetti, spazzole, chiodi…) per costruzioni sonore alla Keith Rowe, Annette Krebs accompagnate da flussi di feedback. Grande abilità sul palco per un’esibizione però forse un po’ troppo nella media per materiale di questo genere. Jazzkammer and Sir Dupermann. Torna l’alito bestiale del noise, questa volta in salsa nordica, a terrorizzare il pubblico. Esibizione comunque più policromatica rispetto a quella di Pita, con Lasse Marhaug grande sciamano che spesso sembra sul punto di voler estrarre fisicamente i bytes maciullati dal suo laptop. Textures di suono che si sfaldano e ricompongono continuamente per una grande folata di gelo stordente. Kim Hiortoy. Da dietro i suoi aggeggi Kim sembra un folletto nordico spiritato. Parte calmo con il pubblico che lo segue partecipe ma compassato, per poi accelerare e incitare gli astanti che improvvisamente si scatenano nella danza. Agitandosi come un ossesso infilza uno dietro l’altro brani che dimostrano un talento pop, mai dozzinale ma sempre ricco di sfumature vagamente retro, enorme. Sfiancato fisicamente vado via con uno stupido sorriso e un’immotivata gioia. Grazie Kim. David Grubbs. L’ex metà dei Gastr Del Sol, rappresenta una presenza anomala all’interno del Sonar data la sua scarsa attinenza con la scena più propriamente elettronica, anche se le collaborazioni in tal senso non sono mancate in passato, qui rappresentata. Notevole invece il suo curriculum in campo avant, aspetto che però poco traspare nella sua esibizione, ripiegata principalmente sui suoni art rock dei suoi ultimi lavori “The spectrum between” e “Rickets and Scurvy”. In ogni caso comunque un concerto di gran classe per un gentleman della musica indie. Bjork. Dato il pessimo servizio autobus per il raggiungimento del Sonar By Nigth arrivo in ritardo, a concerto già iniziato. Mi accoglie un terribile centro fieristico, dove all’ingresso mi fanno buttare la lattina di birra appena comprata, birra che però il bar all’interno vende a prezzi altissimi (questa è una costante del Sonar, evitate assolutamente di nutrirvi-abbeverarvi al suo interno). Posto caratterizzato da locali enormi e enormemente alienanti, farcito di amenità tipo pista autoscontro. Veramente brutto. Bjork, dicevamo, ma c’è? E’ sul palco? Sinceramente riesco a vedere ben poco e solo grazie a dei pannelli video capisco qualcosa dato che anche la musica mi arriva sotto forma di un enorme boato distorto. Lei, con una veste nera e capelli a caschetto, i Matmos, Zeena Parkins, la Icelandic String Orchestra ci sono tutti mentre sul fondo del palco vengono proiettati video e inscenati giochi di luce. Mi spiace ma non riesco ad emozionarmi. Monografia Tina Frank. All’interno del SonarCinema una serie di video dedicati all’austriaca caratterizzati dai soliti, ma sempre coinvolgenti, giochi di decomposizione-ricomposizione di forme geometriche astratte e disturbate, su musiche di Oren Ambarchi, Pita, General Magic….Dyad. Non conosco questo duo audiovisivo svizzero-americano equipaggiato degli onnipresenti powerbooks, ma passando quasi per sbaglio al Sonorama, dedicato principalmente a presentazione di software e hardware rimango intrappolato. Intrappolato da suoni sottili e frammentati che lentamente si insinuano sotto la mia pelle, mentre immagini video vengono generate in realtime con softwares che elaborano inputs prodotti con mezzi molto spartani (un pezzo di stoffa su una lampadina, una pinza,…) per produrre risultati straordinari e inquietanti dove le fonti iniziali vengono completamente trasfigurate e ricontestualizzate in scenari da incubo. Soundclusters. Seduto per terra assieme ad altre 5, 6 persone dinanzi a me un quartetto di robots musicisti si esibisce in uno splendida esecuzione di musiche composte appositamente per loro. Sono le creature di Roland Olbeter che azionate da vari congegni meccanici inscenano un’esecuzione avant rock.  Sonusphere.  Un’enorme sfera di plastica realizzata dall’artista Mark Bain vibra dei microsuoni emessi dall’ambiente circostante (o meglio sottostante) captati attraverso speciali sensori . Bausatz Noto Infinity. Carsten Nicolai e la sua ossessione per il suono nei suoi aspetti più intimi e infinitesimali in questa installazione. Quattro giradischi con quattro vinili, contenenti ognuno 48 locked grooves ai limiti delle capacità di percezione che il pubblico può combinare in un numero infinito di modi agendo sulla velocità e sullo sfasamento temporale. C’è in questo una sorta di dimostrazione matematica della capacità generativa, potenzialmente illimitata, di un numero fissato di elementi dalla consistenza appena, appena al di sopra del nulla. Pulseprogramming. Si chiude all’insegna della malinconia il festival. Pubblico stanco, fumato perso che si lascia muovere per l’ultima volta dalle note delle musiche fortemente evocative del trio. Melodie sensuali assolutamente perfette per accompagnare le persone che iniziano tristemente a sfollare il festival.

 

Alfio Castorina