Nuovo Album Per Hi-Risk Cafè. Click Per Infos.
Nuovo album per Hi-RiskCafé
E’ stato appena pubblicato l’attesissimo nuovo album degli Hi-Risk Cafè, un lavoro maturo che avrà modo di colpire nel modo giusto.
Lascio alle parole di TheRaven il compito di presentare questo spelndido lavoro.
Buon ascolto a tutti.
“HI-RISK CAFE’ – IN UN MODO O NELL’ALTRO (Anomolo, ottobre 2005)
“L’idea portante dell’album è stata di tradurre in musica spaccati della nostra vita per fermarli nel tempo, come si fa con le foto. Ecco, questo disco è un album fotografico con scene del perido che stiamo vivendo, a volte sono foto a colori, altre sono in bianco e nero”.
Così Daniele Nisi fissa, è il caso di dire, lo spirito di “In un modo o nell’altro”, prova numero due dei Paddy nuova versione, vale a dire Hi-Risk Cafè.
Rispetto alla formazione precedente, gli HRC hanno intrapreso un percorso più duro e poroso, rinunciando a pulizia e canzoni perfettibili per impregnare invece il suono di un certo vigore paranoide e un filino appena di sguaiatezza. In un’immagine: gli HRC han deciso di sporcarsi le mani col rock, quello che ancora fa storcere la bocca ai programmisti televisivi, quello agrodolce dove le spezie “scoprono” molto di più che il resto dei sapori del piatto.
E l’aspetto che stupisce di più della formazione è che, essendosene andato Cristiano Ballarini, il cantante e compositore di quando omaggiavano col proprio nome una marca di whisky, né il lato strutturale e creativo né quello vocale han risentito della dipartita.
Non hanno aspettato, gli HRC, ad avere quel numero minimo di canzoni che rendono lecita la pubblicazione di un album e che in genere va da un minimo di undici a vedete voi quante, però hanno profuso a piene mani in generosa fantasia nell’impastare questi nove gioiellini.
Una caratteristica di “In un modo o nell’altro” è quella che rende grandi tutti gli album degni di tale nome: fondere l’orecchiabilità del pop con la stratificazione di un suono più articolato che pesca da molteplici stagni sonici della più bell’acqua. Il risultato è quello di aver realizzato un disco che si fa piacere da subito come se fosse una qualunque produzione da airplay ma consente una scoperta più particolareggiata dei brani ad ascolti successivi. Ci vuole il carbonio14 della passione e di un certo gusto per l’obliquità se si vuole penetrare dentro le pieghe di ogni singola song e scoprirne le varie sfaccettature geologiche: ora un riff che sa tanto di glam, ora un giro di chitarre punk, ora l’atmosfera sognante del gothic inglese più rarefatto, ora un salto deciso dentro l’improvvisazione psychofreakedelica.
Si comincia con “More”: una drum machine col pum pum disco avanza per poi sciogliersi in un’atmosfera che potrebbe ricordare gli Psychedelic Furs e tutta quella pletora di band che univano armonie romanticistiche e acuminati residui del popolo con le spille da balia. Tra l’altro, la voce di Cristiano Marchetti, una delle più sorprendenti sorprese degli HRC, ha la stessa rasposa rotondità di quella molto particolare di Richard Butler, frontman dei citati Furs. La chitarra prettamente punk che si agita nel riff scartavetra per benino i propositi di dolcezza e il pezzo se ne va beatamente a puttane in una selvaggia rabbia che difficilmente potrete ascoltare fermi sulla sedia.
“Feel It” fa anche peggio, con un loop che introduce un’atmosfrra paranoica guidata da tastiere a mo’ di sirena e voce urticante. Un pezzo che si morde nervosamente la coda come quei cani che a volte si incontrano impazziti per la strada. Altro gran cantato che ti entra in testa e te lo ritrovi a sputar fuori mentre guidi in mezzo a una selva di nevrotici coglioni dal clacson facile. Segno evidente che si tratta di therapeutic frenzy, che fa ejettare rancorosità per stabilire un più sopportabile livellamento di umore a posteriori.
Calma le acque e paga pegno al sempre appeso-al-muro Robert Smith, la sognante “Happiness”, che dei Cure più da lullaby riprende quella mestizia autoreferenziale che ha fatto la loro fortuna tra i diari degli adolescenti di mezzo Ocidente. “Happiness” offre però in più una mescola ad alta resistenza con un innesto di quelle armonie da grandi spazi westcoastiani che la impreziosiscono e la infarciscono di una qual certa positività. Senza dover indossare pesanrti camicie di flanella a scacchi, of course.
“Strange Obsession” è, per quanto mi consta, la migliore del mazzo, una di quelle canzoni che ti porti a lungo sottopelle e che ti esce fuori dalla testa quando meno te le aspetti (chessò, mentre pisci, di notte, nel cesso semiscrostato di un autogrill a due pianeti da casa tua o uscendo dal lavoro durante una giornata bella, fredda e piovigginosa). Caracolla decisa lungo il suo svolgersi ed esplode nel ritornello che aspetti con ansia in un gioco di attesa da sabato del villaggio ma senza la trombata finale leopardiana, perché qui il retrogusto della soddisfazione ti resta tra i denti e pensi che, in fondo, la vita puttana va vissuta non foss’altro per riascoltare degli intrecci sonori come questi. Che poi il suicidio resti una delle soluzioni più celeri e indolori per andarsene con eleganza da quel club di teste di cazzo che è diventata la società è un altro bel par di maniche(i).
“Winter Song” ripassa i canoni smithiani di “Happiness” ma cede un po’ alla tentazione di orpelli e a stendere tappeti di benvenuto confezionati con tastiere dalla trama spessa di mohair bagnato. Di sicuro la song a digestione più lenta, che verrà percepita pienamente solo quando il resto sarà già diventato carne e sangue.
“And Now” trasuda inglesitudine di ottima qualità dalla prima all’ultima nota, fondendo le cosine più squisitamente leggere a quelle coi famosi controcazzi. Non ne ha niente, ma proprio niente (forse la matematicità del drumming) eppure per qualche breve lampo mi ha ricordato il classico disco-punk di “Heart Of Glass” dei Blondie. Che tutto erano meno che inglesi. Gran casino, no?
Schizenrolla “Always The Same”, che del RnR riprende semplicità schematica e velocità e le annega in quei ritornelli un po’ manicomiali dalle parti di Talking Heads primo periodo, Urban Verbs, Polyrock, Gaznevada (la chitarra sembra quella di “Sick Soundtrack”) e via discorrendo. Mettiamola così: se mai faranno un film sul Canaro, troverebbe tra queste note materiale di riferimento per le scene più truculente…
Giustamente, fa notare ancora Daniele, “Siamo molto affiatati noi due e questo ci facilita molto le cose, a volte basta una mezza parola e già siamo sulla strada giusta”. Affiatamento, troppo giusto. Come si potrebbe sennò pensare di dar vita a un pezzo frutto di improvvisazioni come la strumentale title track, dove su un’ossatura di basso, echi, synth e un drumming sovrapposto creano una coltre di suono non rumoroso come ci si aspetterebbe, ma d’atmosfera per ipotetiche pellicole sperimentali? Forse non è un caso che questo, senza voce, sia il solo pezzo con un titolo in italiano; una specie di biglietto da visita per il futuro o più semplicemente un divertissement a cui mettere un titolo a suo modo simbolico di quel che sono gli HRC oggi?
Chiude “No Tomorrow”, la più standard della covata, con una chitarra che ricorda il fu Mc Geogh (r.i.p.) dei Banshees di mezzo, dove la voce dà grande prova di sé quando si alza (meno nel resto del brano) e imbizzarrisce il sound traendolo fuori dalle secche del post-punk.
Con “In un modo o nell’altro” gli HRC sopravanzano il rito di passaggio di “You”, uscito neanche un anno fa, e pongono solide basi per un futuro fatto di cazzuta completezza e sana animosità. Non un voto, dunque, ma candeline: 18. Ed ora tirate fuori la vodka, che ho la gola secca.”
X-ray rewiev by theRaven
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ANOMOLO “Non pagare questa musica”
http://www.anomolo.com
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