Rubrica Di Musica Classica Contemporanea di Filippo Focosi
Elliott Carter ‘What Next?/Asko Concerto’ (Ecm Records 2003)
Elliott Carter è il “nonno” dei compositori contemporanei; pensate che nel 1996, alla veneranda età di 93 anni ha composto la sua prima Opera (What Next?), dopo aver scritto molti lavori per orchestra e per gruppi cameristici, tra i quali spicca un importante ciclo di 5 quartetti d’archi. Ricordo che il mio primo incontro con la musica di Carter fu grazie alla compianta trasmissione “Invenzioni a due voci” (su Radio Rai Tre, ovviamente…), nella quale ebbi modo di ascoltare le Three Occasions for Orchestra del compositore americano. Rimasi molto colpito da come potenti masse sonore indipendenti tra loro riuscissero a dar vita ad una tessitura contrappuntistica di notevole complessità ma comunque percepibile senza eccessive difficoltà. Carter ha sempre cercato, dagli anni ’50 sino ad oggi, di rappresentare attraverso la musica la complessità dei rapporti tra gli individui e la mutevolezza della vita dell’uomo del XX secolo, la cui cifra dominante sembra essere il cambiamento (di luoghi, lavori, amicizie, etc. ..). Il problema, per Carter, è che tanto nella vita quanto nella musica il culto del cambiamento e la rinuncia ad ogni forma di abitudine (se pur breve, come auspicava Nietsche) e, quindi, di ripetizione, possono rivelarsi fatali: disgregazione dell’ego e inintelligibilità del discorso musicale ne sono le inevitabili conseguenze, umane ed artistiche. E’ per questo che le ultime composizioni di Carter (compresi i brani del cd) sprofondano nel caos. L’individuo ivi musicalmente rappresentato è spersonalizzato (egli parla il linguaggio inespressivo e morto dell’atonalità), incostante (i suoi ritmi sono frammentari e discontinui), isolato (come possono siffatti individui comunicare tra loro?). Carter è sempre stato un acerrimo nemico del minimalismo, da lui definito “musica reazionaria”; se però il progresso coincide con le musiche di questo cd, c’è poco da ridere (What Next? Nothing good with pieces like these, dear Elliott…).
Voto: 2/10
www.ecmrecords.com
Giovanni Sollima ‘Works’ (DEDALO/Sony 2005)
Giovanni Sollima è un giovane ma già affermato compositore palermitano, del quale ho molto apprezzato, tra gli altri, Millenium Bug per quartetto di percussioni e Violoncelles, Vibres per 2 violoncelli ed orchestra d’archi. In questi lavori Sollima ha puntato su freschezza melodica, vitalità ritmica e sonorità tipicamente mediterranee, una miscela che rappresenta un buon antidoto contro l’eccessivo intellettualismo di certa musica contemporanea. Il problema è che se si eccede nella ricerca di immediatezza e di semplicità, si rischia di divenire banali, come accade nelle Songs from the Divine Comedy che costituiscono il piatto forte del cd in questione e che sono tratte da un’opera teatrale rappresentata a Fano il 5 agosto del 2004. Di quella serata scrissi una recensione, mai pubblicata, da me provvisoriamente chiamata “deludente Sollima”, della quale ora riporto una parte: “….l’Opera di Sollima avrebbe potuto benissimo chiamarsi semplicemente “Songs”, dato che i riferimenti alla Divina Commedia erano difficilmente afferrabili all’orecchio: forse sarebbe stato più opportuno proiettare sullo schermo i testi scelti da Sollima per le sue canzoni, al posto delle insulse immagini di cui parleremo dopo. Non c’è niente di male, credo, da parte di un compositore “colto” a cimentarsi con la forma canzone, ma non è così semplice come si può credere: ci vuole un particolare talento, quello che, per capirci, possedevano Gerswhin, Bernstein, Poulenc, Piazzolla e che, a mio avviso, oggi possiedono Sakamoto e Nyman, ma che, per ora, Sollima non ha dimostrato di avere. Nella sua Opera, infatti, il compositore siciliano, più che creare delle canzoni veramente originali, ha scimmiottato di volta in volta diversi personaggi della musica leggera. Nella parte ispirata all’Inferno dantesco lui e la sua band aggredivano con visibile (e risibile) rabbia gli strumenti (archi, tastiere, chitarre, percussioni), manco fossero stati gli Iron Maiden; la contemporanea proiezione sullo schermo di immagini di teschi e scheletri abbassava l’esibizione al livello di un concerto di Marylin Manson. Musicalmente più felici sono state le parti ispirate al Purgatorio e al Paradiso, per le quali Sollima attingeva a piene mani dal repertorio medievale e da quello celtico: un po’ Branduardi e un po’ Loreena McKennit,ma con meno capelli del primo e meno voce della seconda. La musica era di nuovo accompagnata dalla proiezione di immagini, costituite questa volta da dipinti piuttosto scialbi del pittore Antonio di Mino. L’esibizione si concludeva con un breve ritorno all’Inferno: Sollima si ritravestiva da Manson, sullo schermo tornavano gli scheletri, l’incubo (per gli spettatori, s’intende) finalmente cessava”. Questo è il ricordo che ho di quel concerto, ed è anche il mio giudizio sul presente cd. In una parola: deludente.
Voto: 4/10
www.sonymusic.it
Neil Rolnick ‘Shadow Quartet’ (Innova 2005)
Breathing Machines − letteralmente, macchine che respirano − è il titolo del secondo movimento del brano che dà il titolo al cd, e può anche essere considerato il manifesto poetico del compositore americano. Tutti i brani del presente cd si caratterizzano infatti per il loro sviluppo regolare e meccanico di motivi eseguiti da strumenti acustici e talvolta rielaborati al computer dallo stesso Rolnick. Ciò potrebbe far pensare ad una musica fredda e impersonale, ma non è così: vale la pena a tal proposito ricordare l’esperienza di Steve Reich, il quale iniziò negli anni Sessanta a sperimentare tecniche di sviluppo graduale per la costruzione di processi musicali predeterminati in ogni dettaglio; successivamente egli scoprì una congenialità tra il suo modo di comporre e le tecniche di costruzione ritmica riscontrabili nella musica africana. Proprio in virtù di tale congenialità si spiega l’espressività di una musica come quella di Steve Reich, basata su rigidi processi meccanici: tecniche come quelle della costruzione di una figura musicale attraverso l’aggiunta graduale e costante di note sono capaci infatti di produrre una travolgente e contagiosa pulsione ritmica, che in certi casi (come nella musica africana o in Drumming dello stesso Reich) può raggiungere effetti ritualistici. Meccanicità e gradualità del processo compositivo, quindi, come mezzi per la costruzione di ritmi trascinanti e coinvolgenti: ciò è quanto accade nella musica africana, in Steve Reich ed anche in Neil Rolnick. Bisogna però precisare che i processi musicali ivi descritti, pur nella loro predeterminatezza, non impediscono al compositore di esprimere la propria personalità: solo il compositore, infatti, inventa il processo da utilizzare, interviene per modificarlo e sceglie i materiali su cui lavorare. In questo senso Rolnick si distingue per l’utilizzo di materiali tratti dal jazz e dal pop, per la dinamicità non aggressiva delle sue composizioni e per un certo humor di fondo che le attraversa.
Voto: 7/10
www.innova.mu
Teresa McCollough ‘Hammers and Sticks’ (innova Recordings 2004)
L’organico formato da pianoforte e percussioni è stato inaugurato nel Novecento da Bela Bartok con la sua Sonata per due pianoforti e percussioni ed è stato poi riutilizzato da George Crumb nei suoi Makrokosmos: due lavori, questi, che nella loro diversità e profondità dimostrano come questa particolare combinazione di strumenti possa adattarsi ad esprimere una vasta gamma di emozioni. E’ quanto accade nel presente cd, dove dal dinamismo quasi jazz di Alex Shapiro e dall’energico groove di Steve Mackey si passa al delicato minimalismo di Belinda Reynolds, per arrivare alle contaminazioni tra Oriente e Occidente nei lavori di Alvin Singleton e Zhou Long. Nel complesso, un buon cd.
Voto: 7/10
www.innova.mu
Klein/Kleinsasser ‘Equipoise’ (innova Recordings 2005)
L’abbinamento tra strumenti acustici e musica elettronica è uno dei cardini della ricerca musicale del secondo dopoguerra, ma non sempre ha prodotto risultai degni di nota. I compositori presentati in questo cd si inseriscono in questo filone di ricerca − anche se i lavori qui presentati sono eseguiti prevalentemente dai soli strumenti acustici − e le loro composizioni, seppur maggiormente godibili rispetto a una gran parte dei lavori elettroacustici prodotti fino ad oggi, sinceramente non riescono a raggiungere livelli di eccellenza; soprattutto, non riescono ad emozionare più di tanto l’ascoltatore. Fa eccezione il Concerto per sassofono, orchestra da camera e computer di Kleinsasser: qui la parte dello strumento solista − per di più uno strumento così versatile come il sax − funge, con la sua leggerezza e la sua imprevedibilità, da contraltare al suono magmatico dell’orchestra e alle tessiture regolari del computer, creando un’interessante ed inedita polarità di situazioni musicali ed emotive.
Voto: 6/10
www.innova.mu
Questa recensione integra Musiche Per Il 21° Secolo Volume 2 che era composta da tre recensioni.
So Percussion ‘Melody Competition/The So-Called Laws of Nature’ (Cantaloupe Music 2004)
Nel loro disco d’esordio per l’etichetta Cantaloupe, lo straordinario quartetto di percussioni So Percussion si cimenta con le opere di due autori americani piuttosto affermati. Evan Ziporyn può essere considerato un erede di quella nutrita schiera di compositori americani che si sono serviti di idee musicali provenienti dall’Asia e dall’Africa (tra gli altri ricordiamo Henry Cowell, Lou Harrison, Colin McPhee, Steve Reich). Il titolo del suo brano, Melody Competition, è abbastanza esplicativo circa il suo contenuto: esso infatti si dipana sul continuo avvicendamento di melodie che richiamano tanto la musica africana quanto il jazz (inutile dire come queste musiche siano tra di loro collegate), secondo uno sviluppo che sembra avere carattere improvvisativo, ma che allo stesso tempo rivela la presenza di una trama compositiva ben delineata. Ziporyn utilizza in prevalenza percussioni intonate, il cui suono avvolgente ma energico, rotondo ma netto, crea un’ulteriore polarità all’interno del brano, il quale risulta infine essere un ispiratissimo esercizio di ricerca di equilibrio tra spontaneità e struttura, tra melodia e ritmo, tra delicatezza ed esuberanza. Di minor impatto è invece il lungo brano di David Lang, a causa di una ripetitività forse eccessiva e di una generale “freddezza” emotiva.
Voto: 7/10
www.cantaloupemusic.com