Di Marco Loprete
Cosa fa di una canzone una bella canzone? E’ quello che si chiedono Giosuè Luca Cavallaro e Jvan Sica, autori del testo ‘Le forme della canzone’, uscito per Zona. Precisiamo: non si tratta di un trattato di estetica musicale, quanto piuttosto di un saggio che mira a svelare i segreti della scrittura dei brani più memorabili della musica pop. Come si può comprendere, la missione degli autori non è per nulla facile e difatti i nostri falliscono miseramente il colpo.
I gravi problemi del libro, quelli che saltano subito all’occhio, sono di natura prettamente “ideologica”. Il primo, è la confusione (voluta) tra “bella canzone” e “canzone di successo”, confuzione che aleggia come uno spettro su tutte le pagine del testo: pare che l’autore consideri una brano pop ben riuscito solo se incontra i gusti di milioni e milioni di ascoltatori. Cavallaro, inoltre, che per la cronaca è pianista, compositore e grafico, sembra non poi considerare affatto la canzone una forma d’arte, ma piuttosto un artefatto culturale (o peggio: un prodotto industriale), ovvero un qualcosa che non è frutto di talento e di ispirazione (che, a suo dire, non contano per nulla), ma di mera consapevolezza tecnica, una sorta di congegno ad orologeria volto a produrre un effetto di gratificazione nell’ascoltatore attraverso un meccanismo di creazione/soddisfacimento delle aspettative – tutto questo attraverso la scelta degli intervalli, l’arrangiamento e le costruzioni armoniche. Da qui l’individuazione di una serie di criteri “oggettivi”, relativi per l’appunto alla melodia, alla scelta della strumentazione e alla ritmica che, a giudizio di Cavallaro, sono alla base di una “bella canzone”.
Come si sarà capito, chi scrive questa recensione dissente profondamente da questa visione: l’oggettività, nella fruizione del “prodotto-musica” non esiste; esiste il piacere soggettivo e le impressioni che ciascuno di noi trae da un brano o da un disco. Ecco perchè le tesi di Cavallaro appaiono al sottoscritto, più che uno studio serio, un puerile e quanto sterile tentativo di speculazione intellettuale.
Un tantino più interessante (sebbene parta, in fondo, dalle stesse premesse) l’analisi di Jvan Sica, studioso di design, comunicazione e cultura visuale, che si concentra, nella seconda e più ridotta parte del volume, sul processo di costruzione di quello che egli definisce il “prodotto-artista”. La sua analisi, interessante ma tutt’altro che innovativa, sottolinea come al giorno d’oggi a contare nel mondo di (certa) musica, non sia tanto l’aspetto prettamente artistico, quanto piuttosto l’immagine che le major discografiche costruiscono intorno ad un musicista: è questo il concetto di “iperprodotto”, per il quale “oggi la merce esiste solo se è arricchita da un surplus di immagine che la va a sostanziare mediaticamente, anzi a dargli, nel vero senso della parola, una real-virtuale esistenza”.
A chiudere il volume, un’appendice, a cura di Giuseppe Barbera, pianista, arrangiatore, interprete e compositore (ha collaborato, tra gli altri, con Mango, Ron, Riccardo Fogli e Cementano), il quale si occupa dell’analisi, per così dire tecnica, di alcuni brani: Roxanne, di Sting, La gelosia, firmata Gianni Bella/Mogol e Tears In Heaven, scritta da Eric Clapton.
In definitiva, un testo caldamente sconsigliato a tutti coloro per i quali la musica non è un lavoro certosino e consapevole di evocazione e costruzione di mondi, ma pura e semplice magia…