Tra Roma e Montefalcone nel Sannio, giungono sulle frequenze di Kathodik gli Obsolescenza Programmata e la loro inconfondibile verve elettro-industrial, colta e piena di spunti. Paesaggi (ultra) urbani&cibernetici pulsano all’unisono con (magnifici) rimandi ad un crudo primitivismo tantrico. Ritmi vorticosi, ambienti estesi di fine ambient, field recordins, manipolazioni e tanto altro ancora
Di Sergio Eletto no©
elettosolare@yahoo.it
«All’improvviso gli Avi. Musica Improvvisata con tecnologia incerta e suono dilatato. Rumori di fondo incontrollati e incontrollabili. Piano Bar per soggetti ipercinetici. La prima registrazione della casa e a voi il suo reiterarsi edonista»
Sospesi tra la Capitale e Montefalcone nel Sannio; agganciati tra passate ripercussioni industrial (post) new wave – suggerite da un glorioso passato memore dei migliori anni ’80 – e ispirati a nuove sottigliezze elettro-acustiche / sperimentali, avviciniamo lo sguardo verso quella strana creatura che risponde al nome di Obsolescenza Programmata.
Un catalogo raffinato e curato nei dettagli, costituito da quattro release, ognuna contraddistinta da una propria anima… da una precisa indagine del-nel suono. Un differente manipolo di artisti afferra un discorso basato essenzialmente sulla sperimentazione oltranzista e minimale, accostando ad essa, con costanza ‘militante’, una possente e vasta piattaforma di stili… estetiche mutanti.
Eterogenei, multiformi, graffianti, nichilisti e – orgogliosamente – non ortodossi: gli Obsolescenza, tra l’altro, si cimentano anche in uno specifico rapporto che vede avvicinare le proprie sculture sonore a precise installazioni multi-mediali, quanto a determinate opere visuali e/o artistiche contemporanee.
Di fatti, è da ricordare che proprio uno dei primi tasselli discografici, palesemente intitolato “Musica Per Esposizione”, rivela una soundtrack composta anche per accompagnare una delle recenti mostre pittoriche ‘a tema’ di Ettore Frani: artista originario di Termoli, il cui gusto potrebbe idealmente dividersi tra un savoir faire decisamente personale e oscuro con una serie di artisti nero-pece, come ad esempio il seminale H.G Giger.
Affluenze elettro-magnetiche, dissonanze ed oscillazioni micro-tonali, rintocchi metalloidi, enigmatici, field-recordings atmosferici di nobile caratura; e ancora frequenze, dissonanze, voci gracchiate, perse per sempre nell’etere della mente, divagazioni rumoriste industriali(zzate), oscurità ovunque; noise granulare, astratte costruzioni ritmiche, alchimie analogiche, gemiti, sospiri e lamenti notturni, feedback sintetici ed echi di tastiere spaziali in smorzato sottofondo…
‘Marciume’ elettro-acustico di ottima qualità, elettro-elettronica fantasiosa e poco comune: ecco quello che si apprende dall’ascolto – reiterato a dovere – di questo manufatto coniato Obsolescenza Programmata: entità che all’occasione fa fluttuare nell’ambiente esterno i suoni, gli umori più reconditi di chitarra a fil di ferro, riverberi, jack, radio umori, molle, orologi, sospiri sospesi in respiri…
E’ delineato, dunque, con dovizia di particolari l’armamentario utilizzato nell’architettare “Musica Per Esposizione”: sfondo sonoro realizzato, come dicevamo, per supportare la mostra “Frammenti D’Amor” dell’artista Ettore Frani e presentato dai nostri come una: ‘… inutilizzata, massiva poltiglia di sostanze sonore in tripudio di riverberi… dilatazioni spaziali possibili per singola stanza piccina…’
Tale viaggio suona altamente concettuale e nonostante sia suddiviso in più piste, l’ascolto è da consumarsi in un solo boccone. Dalle proprie viscere ergono, affamate e maledette, annebbiate visioni psycho-industrial degne degli Illusion of Safety, quanto del più viscerale Lustmord; un pizzico di pazzia (più) eccentrica, riconducibile agli ‘esagerati’ rumorismi dark-noise-rock di marca Trobbing Gristle, non mancano di fare una loro, degna, comparsa. Materiali scabrosi, quindi, stratificazioni elettro – elettroniche che portano e accostano il mood degli O.P. alla nobile cerchia di gruppi nostrani come Kar, Gigi Masin, Logoplasm e Anofele.
L’arrivo di “Detrito”, seppur impregnato da una basilare aurea, che tenteremo di definire come elettronica di scuola nichilista, il registro emozionale sterza, mirando all’occasione verso salite in sentieri più disposti a gestualità tribaleggianti, anarco-primitive, selvaggiamente industriali, o comunque altamente inmovimento. Le scosse di ritmo sono intense, in alcuni casi, davvero possenti, al cardiopalma; provate per credere con la cavalcata metallurgica di Dance Hell (titolo evidentemente provocatorio) e con le indiscutibili vocazioni (hi) techno (tech), a prima-battuta, scaricate mediante un 4/4 marziale, in Ausfahrt: ‘inkazzato’ tripudio di casse pompate, rigide, loop e grovigli vocali recalcitranti, in scompiglio nelle budella; una generale ascesa della tensione come un vero e proprio ciclone, rende questo brano un plausibile frequentatore di oscure top-ten oltranziste stilate da allucinati ravers ultra-colti e ultra-inclini alla sperimentazione.
In tre parole: altro che Berlino!!!
Quel mood duro, d’acciaio, che un tempo passava per i sotterranei della capitale tedesca, ora, si (ri)materializza con un’anima nuova attraverso indagini maniacali, ‘perverse’ dentro reconditi ambienti industrial, modulati nel tempo dal rintocco ossessivo di sconosciuti metalli percussivi (Wavindha – Un Illusorio Mantra –). Solo con l’ultimo capitolo (Citazione in Coda Sonica) si ritorna all’assenza di gravita, ad un magma di suoni ridondanti, ma sempre atti a restare sospesi, a dondolare ipnoticamente. La (classica) quiete che compare dopo la tempesta. Può sembrare, forse, un po’ scontato il nodo finale stretto con istanze ambient-drone, ma alla fine non è ciò che conta, o quanto meno interessa. E’ la bravura nel gestire questi cambi netti che ammalia i sensi, non consentendogli di provare neanche per un istante un minimo briciolo di noia. La continua metamorfosi espressiva degli O.P. avviene anche per gli strumenti, oggetti auto-costruiti, nastri e astrusi marchingegni…
In “Detrito” contribuiscono a formare l’intero melange voce (magicamente blues, malinconica, fumosa nell’iniziale Lullablues/de.intro), campioni, metabolismi, nastri, sistemi di ruote dentate, percussioni, costruzioni metallurgiche, oblomovismi urbani su mdf + impegni mancanti, asse telematico, stornelli…
I lettori di Kathodik, a questo punto, avranno ampiamente abbrancato l’idea di trovarsi dinanzi non solo un gruppo di prodi avventurosi della musica d’avanguardia, ma un autentico ensemble di pazzi scatenati; di romantici e bizzarri sperimentatori; di tenaci architetti del suono che trasformano irreali geometrie sonore in materia corporea… tangibile…
Un’armata… un esercito di manipolatori radicali.
Dalle loro stesse parole:
«”Risulta” è una specie di raccolta di outtakes, mentre “Mu” è un concept sull’inabissamento.»
Sintetico, limpido… netto: si presentano in poche parole, le rispettive anime dei lavori che andremo ad esaminare ora.
“Risulta”, da poco venuto alla luce, è un lavoro piuttosto agile, ancora attraccato all’idea di stendere textures sonoro-emozionali eterogenee. Il succo del cd può riscontrasi subito con l’ascolto delle prime quattro tracce, saldate l’una con l’altra da un unico filo conduttore. Amianto, Dubbio Titolo, Interludico e Oggi come Oggi si presentano un po’ come il Bignami esplicito&definitivo del pensiero Obsolescenza Programmata; in pochi minuti, sciorina nelle orecchie un vasto lotto di timbri, sonorità, ritmi, rumori che nei precedenti works erano studiati con più calma, poggiandosi su tempistiche più dilatate… eteree… infinite.
Questo significa, quindi, che i nostri ragazzi hanno le idee piuttosto chiare sul messaggio da trasmettere all’esterno, e dimostrano di saperlo fare anche con frangenti più ristretti. Per il contenuto, sembra proprio di fare un tuffo ‘storico’ nei meandri del primo periodo Touch: quello degli anni’90, il migliore che la nota label anglofona, specializzata in nuova elettronica, ha passato dalla sua nascita.
Hafler Trio, Pan Sonic, Signal: giusto qualche nome che va ad infrangersi sulle intrinseche peculiarità avvertibili in queste strutture. Va detto che dopo, con le sghembe (a)sincronie elettro (pop) di Storia di un Omino, con la complessità di A Ufo nel miscelare retrovie downtempo, ritmi acustici dal sapore rock e infinite situazioni impro, si arriva davvero soddisfatti alla chiusura più classica, da contenuti ambient-concreti misticheggianti, che In Capo All’Anno pone, facendo emergere in generale un clima esoterico da mantra cibernetico.
Prestate attenzione, poi, alla ghost track; ne varrà la pena, vista la spinta propulsiva a schemi di new wave con chitarre distorte & altre diavolerie.
“Mu-o-dell’inabissamento” rimanda immediatamente a climi ostici. Qui, l’assalto alla sperimentazione, oltre che apparire autenticamente tout-cour, non sembra subire alcun freno inibitorio. Le tracce, il bagaglio di suoni (‘primigeni’) ivi contenuto, è secco, spartano, grezzo, fastidioso, granulare; è cosparso da una miriade di giochi ad incastro a base di frequenze, distorsioni, feedback nocivi e cerebrali. Non manca, anche se offuscata da tanto ‘dolore’, l’aurea mistico-spirituale, a questo punto, marchio di qualità ‘d.o.c.g.’ della produzione O.P.
Prestate una visione al video montato per l’occasione con alcune opere di Ettore Frani e ovvia colonna sonora dei nostri: sarà il degno viatico-omaggio per chiudere questo ciclo di conoscenza su un’entità che, tra le tante cose, collabora già da un pò con l’associazione capitolina Scatole Sonore; di sicuro, una vicinanza davvero azzeccata tra giovani realtà emergenti del panorama indipendente nostrano.
Collegamenti utili:
http://www.myspace.com/obsolescenzaprogrammata