Di Marco Loprete
I benandanti erano una congrega di individui legati ad un antico culto pagano (probabilmente di origine tedesca) che, tra il XVI e il XVII secolo, combatteva streghe e stregoni a colpi di rami di finocchio per proteggere i propri villaggi ed assicurare la buona riuscita del raccolto. Secondo la leggenda, i benandanti erano uomini “nati con la camicia” (ovvero avvolti nel sacco amniotico) e cominciavano a svolgere la missione per la quale erano predestinati al raggiungimento della maggiore età, con la quale acquisivano la facoltà di staccarsi dal proprio corpo sotto forma di spirito nelle notti delle quattro tempora (i quattro periodi di digiuno indicati dal calendario ecclesiastico: la prima settimana di Quaresima, l’ottava settimana di Pentecoste, la terza settimana di Settembre e la terza settimana d’Avvento).
Scusate la precisazione storica, ma era necessaria per comprendere di cosa tratta esattamente l’esordio letterario di Fabio Mazza, “Confessioni di un benandante del III millennio”, stampato dall’autore stesso tramite il sito ilmiolibro.it. Ambientato nella zona monti Lepini, catena di alture situata tra le province di Latina e Roma, il libro narra le vicende di un ragazzo (Mazza, per l’appunto), che un bel giorno, inspiegabilmente, esce dal suo corpo e si ritrova a combattere un gruppo di streghe, capitanate da un orribile vecchia, con l’aiuto dello spirito di un antenato, Minico Mazza, benandante ucciso dalla Santa Inquisizione nel 1613, e dallo Zelante Fratello della Morte, capo di un gruppo di assai poco valorosi guerrieri. Il prosieguo della vicenda rivelerà come, in realtà, il protagonista sia la pedina di un gioco ben più grande…
Nonostante i benandanti fossero attivi in Friuli, Mazza decide di ambientare il romanzo nella sua terra (è nativo di Latina). La scelta si accompagna ad una ricostruzione fedele (perché supportata, come indicato nella bibliografia, da svariati testi di linguistica) dell’antico dialetto di quelle zone e ad una descrizione delle credenze e delle usanze del mondo contadino del ‘500. Tuttavia, questa riproposizione “accademica” della lingua parlata dagli antichi benandanti, chiusa a qualsivoglia invenzione, contribuisce a rendere ancor più piatto il libro sotto il profilo stilistico: in fondo, “Brancaleone alle crociate” di Monicelli è un gran film anche per via della grottesca parlata dei personaggi, nata da una storpiatura del volgare. La vicenda, poi, è un po’ confusa e manca di mordente, come se Mazza non riuscisse a tenere saldamente tutte le redini di un racconto che mette molta carne al fuoco (la prospettiva metaletteraria, il romanzo nel romanzo, il dolore esistenziale come musa ispiratrice della scrittura, il labile confine tra bene e male, il fanatismo religioso) ma che produce soltanto una gran quantità di fumo, anziché il sontuoso e prospettato (almeno nelle prime pagine) arrosto.
Link: Editore ilmiolibro.it, 2009