@ Reykjavik – Islanda, 13-17 Ottobre 2010
Di Marco Pagliariccio
Dopo anni di bramosi desideri infranti dalla triste realtà dello studente squattrinato, finalmente, lo scorso mese di ottobre, sono riuscito a coronare il mio sogno di fare un viaggio in Islanda. Sulla scelta del periodo, oggettivamente non il migliore per visitare l’isola (anche se in realtà le temperature, almeno a Reykjavik e nel sud dell’isola, oscillano tra i 10° e i 4°), ha influito in maniera determinante la possibilità di integrare le visite naturalistiche con la musica dell’Iceland Airwaves Festival, giunto alla 11° edizione (13-17 ottobre 2010) e segnalato da molte riviste specializzate come uno degli eventi musicali più cool del mondo. Cinque giorni, 252 gruppi islandesi e non ad alternarsi sui palchi di locali, pub, birrerie, musei, discoteche, negozi, ostelli e chi più ne ha più ne metta nel centro di Reykjavik. Praticamente, nei giorni del festival la capitale islandese pullula al ritmo dei suoni più disparati, dalla classica al metal sfumando lungo tutte le sue forme contaminate ed intermedie. Strutturato in maniera così capillare, prima della partenza io ed miei due compagni di viaggio avevamo immaginato di selezionare gli eventi di nostro gradimento (tra i nomi di spicco di quest’anno, cito gente come Tunng, Seabear, Hercules & Love Affair, Amiina, Moderat, Efterklang, Basia Bulat e Olafur Arnalds, ma l’elenco sarebbe sterminato) una volta arrivati sul posto. Ed invece non funziona proprio così. L’unica possibilità per avere accesso illimitato al festival è quello di acquistare il biglietto unico, valido per tutti gli eventi delle 5 giornate ma già esaurito almeno due settimane prima dell’opening show, alla cifra di 80 euro. Un errore madornale ci stava precludendo una chance che mai avremmo potuto riagguantare. Sfogliando però l’opuscolo informativo fornitoci in aereo (la Icelandair, compagnia di bandiera islandese, è il main sponsor del festival, un po’ come se l’Alitalia organizzasse l’Heineken Jammin’ Festival…) abbiamo scoperto che in realtà, parallelamente al calendario degli eventi “ufficiali”, si sviluppa tutta una serie di concerti “off-venue” (fuori cartellone) ad ingresso gratuito, con artisti in larga parte emergenti ma non solo. Rincuorati dalla notizia, giovedì 14 ottobre alle 12.30 (dopo un fugace ma saporito hot dog in un’area di servizio di periferia), nostra prima mattinata in città, ci dirigiamo alla Nordic House, una sorta di centro culturale dell’università di Reykjavik, per il nostro esordio all’Airwaves. Un piccolo auditorium, divani e seggiole disposti a semicerchio, e tanti tanti ragazzi da mezzo mondo (oltre ai locali, americani, canadesi e giapponesi su tutti, di italiani manco l’ombra) si sono riuniti, alle 13, (nella foto Olafur Arnalds con quartetto d’archi alla Nordic House) per la prima performance della giornata, quella di Olafur Arnalds. Il compositore islandese, uno degli astri nascenti della nuova nidiata post-Bjork, si mette al pianoforte, presenta il quartetto d’archi che lo accompagna (tutte splendide ventenni o giù di lì) e ammalia il pubblico con le sue nenie sibilline dal sapore sì neoclassico ma tutt’altro che vetuste. Le note si abbattono come una brezza fresca tra le luci soffuse della sala, mentre fuori la pioggia picchietta contro le finestre. Un’atmosfera magica. Dopo una ventina di minuti la performance è purtroppo già conclusa. Dopo la star locale è la volta del norvegese Moddi, semisconosciuto biondissimo cantastorie scandinavo che con la sua banda si dimena tra bonghi, fisarmoniche e strumentazioni di ogni tipo. Ne viene fuori un pastiche etno-folk vagamente Yeasayer ma di incredibile presa e passionalità. A seguire è la volta di un’altra band, a quanto pare, molto amata dagli islandesi: si tratta degli Agent Franco, giovane gruppo pop-rock dalle melodie mielose e strappalacrime che però mette in mostra un frontman dalla grande estensione vocale e dalle interpretazioni assai intense (arriva alle lacrime nell’intonare l’ultimo inno a suo padre, morto qualche anno fa). Il pomeriggio in musica si chiude con i danesi Murder, duo chitarra acustica-voce che chiude su note meste un pomeriggio tra scialacquati caffè americani e musica di primissima qualità. Rientriamo in albergo infreddoliti ma soddisfatti dopo 15 minuti di cammino sotto la pioggia battente ma dalla finestra della nostra camera si sente arrivare una suadente voce femminile. Usciamo in strada e sentiamo beat allegri e voci squillanti provenire da una porta che dà sul cortile interno al palazzo dove giace il nostro albergo. È l’ingresso secondario del Reykjavik Downtown Hostel, che ospita anch’esso, a cavallo tra il tardo pomeriggio e la prima serata, eventi fuori cartellone. Siamo arrivati tardi, è già sera, ma sul minuscolo palco c’è un altro degli astri nascenti islandesi, la biondissima Lara Runars. Si dimena saltellando a ritmo di una melodia irresistibilmente pop ma al contempo di rara raffinatezza, il suo caschetto biondo platino detta il ritmo alle teste dell’affollatissima hall dell’ostello cittadino. Ma il sogna svanisce in un amen come la carrozza di Cenerentola. Era l’ultima canzone, il singolo In Between il cui ritornello si imprime nel nostro cervello senza abbandonarci più per il resto del soggiorno. Tutto è dolce, tutto è morbido nella musica dell’Airwaves. Proviamo a passare davanti al Reykjavik Art Museum, dove una fila chilometrica aspetta di poter entrare per la serata a base di Amiina, Efterklang, Hundreds e Moderat, ma non abbiamo il magico braccialetto che apre tutte le porte così siamo costretti a ripiegare su un programma molto più soft a base di birra e una sconosciuta band hardrock locale. Arriva il venerdì, e dopo una giornata tra geyser e cascate del lunare entroterra islandese, verso le 18 torniamo al Reykjavik Downtown Hostel, dove ad attenderci nella hall c’è di nuovo Olafur Arnalds, che, coincidenza, la mattina avevamo già incontrato in mezzo ai geyser (!). Ci aspettiamo l’arrivo del suo quartetto d’archi, ed invece il giovane biondino cresciuto a punk e Mozart (così ha dichiarato in un’intervista il giorno prima) si presenta con tastiere e laptop, accompagnato, quello sì non se lo fa mancare, da un violinista. C’è gente stipata ovunque, anche in mezzo alla strada adiacente al locale, e Olafur allieta la folla con mezz’ora di ambient elettronico soffice ma ossessivo. Stanchissimi ma felici, ci concediamo una cena in ristorante e poi via a letto, in attesa di quello che dovrebbe essere l’evento clou della rassegna: la grande festa alla Blue Lagoon di sabato pomeriggio. La Blue Lagoon è una spa termale a circa 40 km da Reykjavik, immersa nel nulla delle distese laviche che circondano la capitale, che ogni anno ospita questa grandiosa festa nella quale la gente, immersa fino alle spalle nelle acqua calde naturali della laguna si rilassano (o alcolizzano, a seconda dei casi) al ritmo della musica selezionata da diversi dj che si alternano sul palco. Tutto questo mentre la temperatura esterna si aggira intorno ai 4-5 gradi. Le compagnie che organizzano escursioni in pulman offrono pacchetti viaggio+ingresso alla modica cifra di 40 euro (non eccessiva, visto il costo della vita islandese) ma si parte alle 12.30 da Reykjavik, si arriva in loco praticamente alle 13.30 e per le 15.30 bisogna essere pronti a ripartire. Praticamente rimane solo un’oretta da restare a mollo a godersi lo spettacolo. Perché di spettacolo si tratta. Vuoi mettere sorseggiare un drink passeggiando seminudo in acqua bollente mentre “fuori” imperversa la bufera e la temperatura supera a malapena lo 0°? Purtroppo dura tutto troppo poco e, malinconicamente, siamo costretti a levare le tende quando ci stavamo appena scaldando. Per la serata di punta sono attese le performances di Tunng e Robyn al Reykiavik Art Museum (dove, abbiamo poi scoperto, nemmeno Olafur Arnalds è riuscito ad entrare per l’enorme quantità di gente in attesa), ma ormai abbiamo capito che il nostro punto di riferimento musicale è l’ostello dietro al nostro albergo. Così, senza indecisioni, dopo una bella doccia ce ne andiamo a scoprire qualche altra band. Stavolta (nella foto i Rokkurrò al Downtown Hostel) incrociamo i Rokkurrò, gruppo islandese che sta già iniziando a farsi conoscere anche dalle nostre parti. Il loro fragile rock dal sapore orchestrale e la graziosità della cantante/violoncellista ci fanno subito innamorare. Solito set da mezz’ora poi tocca ai danesi Alcoholic Faith Mission, portatori di un intenso folk-rock dagli echi calorosamente onirici. A chiudere il tardo pomeriggio è la finlandese Vuk, che tinge il suo folk vicino a St.Vincent di melodrammaticità a-là Dresden Dolls. Dopo l’ennesima giornata sopra le righe, il nostra Airwaves si chiude al Tiu Dropar, una sorta di cioccolateria che ospita piccoli live acustici cui assistere davanti ad un tè bollente. Arriviamo troppo tardi, Daniel Jòn, cantautore folk locale, sta finendo la sua ultima canzone ma noi ci accomodiamo lo stesso per un bel caffè bollente. Il festival è finito, abbiamo rimediato qualche disco e qualche foto, ma la sensazione di aver solo sfiorato qualche cosa di maestoso resta impressa solo dentro di noi e ci dilania. Stiamo già mettendo da parte i soldi per la prossima edizione.
(nella foto Vuk al Downtown Hostel)