Terza puntata della rubrica dedicata al collezionismo “vinilico”, con il titolo:
“Il trail-off: tutto ed oltre”.
Di Stefano Gagliardini
“Il trail-off: tutto ed oltre”
Uno studio approfondito sul significato delle incisioni che possiamo trovare sul trail-off dei vinili, ci permette di chiarire alcuni “lati oscuri” che non saranno sfuggiti ai collezionisti più attenti ed esperti; per poter comprendere appieno le conclusioni cui giungeremo, è fondamentale avere ben chiaro il procedimento di stampaggio dei vinili, in ogni singola fase.
Il contenuto del “master-tape”, termine con cui si indicava il supporto su nastro nel quale l’artista aveva registrato i brani, veniva riversato, tramite un procedimento chiamato “lacquer-cutting” e tramite una apposita strumentazione (si tratta della “cutting-lathe”, la costosissima apparecchiatura progettata ai fini dell’incisione degli acetati attraverso la quale è anche possibile agire a livello di equalizzazione e compressione) su un diverso supporto denominato “lacca” (o “lacquer” o “acetato”): si tratta di un “contenitore audio” del tutto simile ad un normale vinile come lo si può trovare in commercio, se non fosse che è in realtà costituito da un substrato di alluminio ricoperto da una sostanza chimica appunto chiamata “lacca”.
In questa fase gioca un ruolo chiave il “mastering-engineer”, poichè quando andremo ad appoggiare la puntina del nostro giradischi sul vinile, in realtà ascolteremo il risultato del lavoro svolto da colui che si è occupato della masterizzazione: in particolare, l’equalizzazione e la compressione sono determinanti in questo processo, in quanto da esse deriva direttamente il suono che uscirà dalle casse del nostro impianto stereo; sono infatti importantissime per evitare spiacevoli salti di solco della puntina: al contrario dei moderni supporti ottici, il vinile tollera un range dinamico inferiore rispetto al compact disc quindi “gonfiare” eccessivamente i bassi oppure aumentare eccessivamente le alte frequenze comporterà il classico “salto di solco” (era ciò che accadeva con la ricercata, in ambito collezionistico, prima stampa americana del secondo album dei Led Zeppelin masterizzata da Robert Ludwig: la celebre “hot mix”).
Il master-tape originale poteva benissimo essere utilizzato per più di un cutting, cioè per incidere più di un acetato; la tendenza era comunque generalmente quella di limitarne l’utilizzo per evitarne il logorio conseguente: quindi la prassi prevedeva che ne venisse fatta una copia in tempi piuttosto brevi; tale copia serviva per i cutting successivi, in base alla richiesta di mercato di quel determinato album; la prima copia del master-tape originale viene generalmente indicata come “master di seconda generazione”; la copia della prima copia dell’originale sarà quindi il “master di terza generazione” e così via. Questo fa anche capire quanto spesso sia difficile, per prestigiose etichette quali Mobile Fidelity Sound Lab., Classic Records e Analogue Productions, riuscire a rintracciare il nastro originale tra le decine e decine di copie che sono conservate presso le case discografiche.
Il nastro originale veniva usato dunque generalmente per un numero molto limitato di cutting: tale accadimento, che di per sé potrebbe sembrare assurdo, agli occhi di chi in epoche non recenti si occupava della masterizzazione si rivelava essere invece una “semplificazione”: mentre il mastering-engineer faceva girare il master-tape originale nella cutting-lathe, un altro supporto su nastro veniva fatto girare per registrare quella specifica versione dell’album con i settaggi di equalizzazione e compressione già precedentemente impostati. Questa copia del master-tape originale con i settaggi bell’e pronti, veniva indicata come “Cutting Master” mentre il vero master originale veniva poi accantonato in quanto non era più necessario utilizzarlo: in questo modo, ogni qualvolta si fosse reso necessario un ulteriore cutting, veniva utilizzato il cutting master con equalizzazione e compressione già settati senza dover ogni volta reimpostare il tutto. A sua volta, anche il cutting master era protagonista di un numero limitato di utilizzi, prestandosi ad essere copiato e così di seguito.
Con l’avvento del digitale, il master-tape è quasi scomparso, utilizzato solamente in alcune produzioni artigianali, e la tecnica si esplica in questo modo: l’acetato, una volta inciso, viene poi rivestito da una pellicola costituita da un composto chimico a base di nickel; quest’ultima, una volta rimossa dall’acetato stesso, ne riproduce il “calco” (ossia ha delle “protuberanze” invece dei classici solchi), ovvero le due matrici (il cui nome tecnico è in realtà “fathers”), che subiscono a loro volta un procedimento di placcatura dando origine alla piastra madre che genera, come conseguenza di un ulteriore procedimento di placcatura, gli stamper. In realtà per un medesimo album vi erano due acetati: uno per il lato A e uno per il lato B: l’acetato era infatti inciso solo su una facciata, mentre l’altra rimaneva liscia: per tale ragione, si avevano anche due matrici, una per lato di vinile.
Gli stamper (il cui nome tecnico è in realtà “childs”), una volta montati su delle presse idrauliche, stampano materialmente i vinili per la distribuzione (uno stamper riesce in media a pressare circa 1.000 dischi, prima che una eccessiva usura ne pregiudichi la qualità del prodotto finale).
Il lacquer, essendo di per sé composto di materiale estremamente delicato, si danneggia pressoché sempre durante il procedimento di estrazione della prima matrice divenendo inutilizzabile per eventuali scopi futuri (a parte quelli di puro collezionismo). Per poter ricavare le matrici successive alla prima, si rende quindi necessaria la scrittura di successivi acetati. La matrice, invece, essendo composta di materiale metallico, è molto meno deteriorabile, e da ogni singola matrice è possibile estrarre solitamente otto o dieci madri prima che essa stessa inizi a deteriorarsi; da ciascuna madre si può arrivare a dare origine in media a otto o dieci stamper arrivando quindi alla produzione di molte decine di migliaia di copie a partire dal medesimo lacquer: volendo fare una verosimile approssimazione, si può affermare che da un singolo lacquer si possono produrre circa 50.000 dischi, tenendo presente che non era ed è infrequente il caso di dover “scartare” in partenza alcune matrici, madri, stamper o addirittura acetati in quanto non privi di imperfezioni.
In realtà è tecnicamente possibile montare sulla pressa idraulica direttamente la matrice al posto dello stamper, senza dover ricorrere alla trafila cui abbiamo fatto cenno: come conseguenza, però, dovremmo fare i conti con il fatto che una singola matrice non può, per via della progressiva usura, stampare più di un migliaio di vinili, esattamente al pari di un singolo stamper: quindi questo espediente che di per sé sarebbe il più logico e rapido, non si rivela essere una strada percorribile se non per quanto attiene a tirature molto limitate e di qualità superiore alla media.
Per consentire a Paesi esteri il pressaggio del disco, la prassi era di inviare loro delle copie del master-tape originale, ma mai il master-tape originale stesso che restava gelosamente custodito dalle case discografiche: anche qui, volendo scendere nel dettaglio, il master originale veniva lubrificato e conservato in appositi ambienti climatizzati per permetterne una conservazione ottimale nel corso degli anni; purtroppo, però, dal 1974 in poi, a causa della crisi energetica di quel periodo, molte case produttrici iniziarono ad utilizzare un lubrificante sintetico che si rivelò assolutamente non all’altezza della situazione: nell’arco di un lustro, infatti, ci si accorse che i nastri originali iniziavano a deteriorarsi irreparabilmente.
Quello appena esposto è il procedimento “classico” di stampaggio dei vinili, cioè su acetato; vi sono comunque anche altri metodi, come ad esempio il “Direct Metal Mastering” (DMM), che non prevedono l’incisione di acetati; lasceremo al lettore, qualora ne fosse interessato, il compito di approfondire tali tecniche che esulano dalle finalità di questa esposizione.
Quanto appena descritto, ha delle ripercussioni importanti in ambito collezionistico al di là delle mere curiosità di fatto; dal momento che uno stesso master tape (originale o meno che fosse) poteva essere utilizzato più di una volta per più di un cutting, possiamo finalmente spiegare ad esempio il motivo per cui nelle stampe italiane si possono sovente riscontrare date diverse abbinate ad uno stesso numero romano: nelle stampe italiane, infatti, il numero romano stava ad indicare il numero ordinale del master-tape utilizzato: così il numero I indicava la copia del nastro che era arrivata direttamente dal Paese di origine dell’artista in questione, mentre il numero romano II era riferito alla sua prima copia e via dicendo; la data impressa sul trail-off dei dischi italiani stava altresì ad indicare la data in cui era avvenuto quel determinato cutting; quindi non indicava assolutamente la data di stampaggio del disco, potendo quest’ultimo avvenire in tempi brevi o anche a distanza di anni rispetto al cutting stesso dato che matrici, madri e stamper erano per lo più composte di materiale piuttosto resistente e capace di conservarsi nel tempo a meno che non fossero già arrivate al limite di progressivo deterioramento. Nelle due facciate del vinile poteva capitare di riscontrare una differenza non solo tra le date ma anche tra i numeri romani: ciò era dovuto al fatto che alcune matrici, madri o stamper potevano presentare dei difetti “di default” e quindi venivano scartate in partenza, oppure la scrittura dell’acetato stesso non era andata a buon fine. Di conseguenza o il numero di copie che potevano essere stampate a partire da quel determinato acetato era inferiore alla media oppure si rendeva fin da subito necessaria la scrittura dell’acetato successivo; per tale motivazione, frequentemente si poteva ravvisare una disparità nella numerazione progressiva tra i due lati del disco dato che la “produttività” tra i vari lacquer poteva differenziarsi anche di molto.
Un’altra conseguenza che si riscontra dalle informazioni che abbiamo appreso sopra, è finalmente la spiegazione di come mai si possono incontrare delle copie della prima stampa inglese ad esempio di “Sgt. Pepper’s” dei Beatles con il “numero di matrice” -1//-1 su entrambi i lati, ma abbinato a numeri ordinali di stamper molto elevati (in alcuni casi addirittura superiori a 900): come abbiamo potuto constatare, da un medesimo acetato si potevano ricavare in media un massimo di 70 o 100 stamper; di conseguenza, una copia con un numero di stamper intorno al 900 ci fa capire come dal master tape in oggetto si siano succeduti diversi cutting (probabilmente in questo caso specifico una decina). È molto importante sottolineare che ciò che i collezionisti indicano “volgarmente” come “numeri di matrice”, in realtà con la matrice vera e propria non hanno nulla a che fare: le incisioni sul trail-off venivano fatte direttamente sull’acetato, e da questo si trasmettevano a matrici, madri e stamper che altro non erano che copie “metalliche” del lacquer stesso; quindi le sigle A1//B1, A2//B2 e così via, indicano il numero ordinale della copia del master-tape utilizzata per il cutting (A1//B1 evidentemente indica che si tratta proprio del master originale); dalle informazioni incise nei vinili inglesi, d’altronde, non si riesce a dedurre di quale specifico cutting si tratti in relazione al master-tape impiegato. Questa precisa informazione è deducibile esclusivamente ed approssimativamente dal conteggio degli stamper, come è stato fatto dall’autore di questo articolo a proposito del disco dei Beatles.
(al lettore che non sia al corrente di come vadano interpretate in generale le incisioni sul trail-off, si consiglia la lettura della prima puntata della rubrica ‘L’angolo del collezionista’).
Ai fini collezionistici, bisogna comunque fare presente che non tutte le copie che fanno sfoggio di un A1//B1 sono per forza di cose delle prime stampe; tali incisioni, infatti, si possono trovare anche su delle ristampe; in particolare, ci riferiamo qui al fatto che sovente i diritti su determinati album venivano ceduti ad altre case discografiche: in questi casi, poteva accadere che il master-tape originale passasse di mano e la numerazione ordinale ricominciasse daccapo; non và inoltre dimenticato che molto spesso il nastro originale veniva usato solo una volta, cioè solo per stampare il test pressing e che vi sono quindi numerosi esempi di “numeri di matrice” che iniziano a partire da A2//B2 o addirittura oltre, per quanto attiene ad album effettivamente immessi sul mercato (il test pressing veniva fatto girare esclusivamente tra gli addetti ai lavori all’interno della casa discografica).
Per completezza di informazione, possiamo affermare che quello che comunemente viene chiamato “numero di matrice”, corrisponde realmente alla matrice (e quindi al relativo acetato, dato che da un singolo acetato si può ricavare solo una matrice) solo nel caso in cui da un medesimo master-tape si proceda ad un solo cutting: era sicuramente un caso frequente ma, come abbiamo visto, non era l’unico caso possibile; ad ogni modo la decisione su come utilizzare il master-tape originale, su quante copie farne e via dicendo veniva presa dal mastering-engineer e poteva di conseguenza variare di volta in volta.
Illuminante a questo proposito, è il contenuto del dead-wax delle stampe americane della Columbia in cui il numero immediatamente precedente le lettere indica l’ordinale del nastro utilizzato, mentre le lettere stesse sono riferite alla numerazione ordinale del cutting: nel codice di questa celeberrima Casa Discografica, per esempio, la “matrice” -1AE sta a sottolineare che siamo di fronte al primo master-tape utilizzato (cioè esattamente l'”originale”) abbinato al sedicesimo cutting (la Columbia utilizzava le lettera dalla A alla L, escludendo la I) in base alla seguente codifica:
– A – primo cutting
– B – secondo cutting
– C – terzo cutting
– D – quarto cutting
– E – quinto cutting
– F – sesto cutting
– G – settimo cutting
– H – ottavo cutting
– J – nono cutting
– K – decimo cutting
– L – undicesimo cutting
La storica Neumann VMS 70 Cutting-Lathe utilizzata da Stan Ricker per la masterizzazione di “The Dark Side of the Moon”, per la prestigiosa etichetta Mobile Fidelity Sound Lab.
Gary Salstrom, indiscusso maestro del procedimento di placcatura e attualmente in forza presso il Quality Record Pressings, ci mostra un esempio di stamper. (photo by Tom Dorsey)
“Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi, soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte.” (Leonardo Sciascia)
Ringraziamenti:
Un ringraziamento particolare và alle seguenti persone, la cui cortesia e competenza hanno reso possibile questo lavoro di ricerca:
(in ordine alfabetico)
Augusto Croce: ItalianProg
Roberto Mento: Rock Bottom
Stefano Tarquini: Pinkside
Si ringrazia inoltre il sito web Steve Hoffman Info Site per la qualità delle informazioni ivi contenute.