Sesta puntata della rubrica Chi fa da sé fa per tre: Paolo Lattanzi.
Di Marco Paolucci Foto in home page di Vishesh Sharma
01/03/2013: Paolo Lattanzi è un giovane batterista italiano che ha incrociato tempo fa la strada di Kathodik con il suo esordio ‘Night Dancers’. Musicista girovago, da tempo trasferitosi negli Stati Uniti, da una base di modern jazz, che lo ha portato ad una nuova pubblicazione, si sta muovendo alla ricerca di nuovi spunti che la nazione ed in particolare New York, offrono a chi ha voglia di cimentarsi con il suo melting-pot. Dopo un po’ di tempo un incontro fortuito ha permesso allo scrivente di riallacciare con il nostro i contatti dando il via alla creazione della sesta puntata della rubrica ‘Chi fa da sé fa per tre’. Consuete domande a cui Paolo Lattanzi ha dato sincere e convinte risposte. A voi i risultati. Altra cosa, potete leggere l’intervista in inglese qui.
1. Quali sono le tue origini come musicista? In particolare come è nata l’idea di suonare la batteria? Perché hai scelto questo strumento?
Da che ricordi la musica ha sempre avuto un impatto emotivo piuttosto forte su di me, ma nel corso degli anni il mio lato musicale è rimasto dormiente, forse in parte a causa di una mancata esposizione alla musica dal vivo, che quando ero piccolo non era molto diffusa nel Maceratese. E’ stato tramite l’ascolto dei Led Zeppelin, in età adolescenziale, che ho capito di voler essere un musicista, non perchè fossi attratto dalla statura stellare del gruppo (fama, prestigio, ecc.) ma perché ho realizzato che non volevo solo essere dalla parte dell’ascoltatore, volevo essere il tramite e l’origine della musica. La maggior parte dei pezzi dei Led Zeppelin è di una profondità compositiva considerevole e questo ha mosso qualcosa in me. La scelta della batteria è stata completamente istintiva, o forse intuitiva se consideri che prima di comprare il mio primo kit non ne avevo mai visto uno da vicino. Il giorno in cui ho portato la batteria in garage ho cominciato subito a studiare, non volevo perdere tempo.
2. Perché hai deciso di andare a studiare in America? Come è stata la tua esperienza di studio al Berklee College of Music? Perché proprio il Berklee College?
Ad un certo punto mi sono trovato in una situazione di stallo. Non avendo accesso ad una sufficiente varietà di opportunità musicali (sia didattiche che pratiche) non riuscivo più ad imparare cose nuove ed ho cominciato a sentirmi frustrato. Avevo già cominciato da qualche tempo ad ascoltare un po’ di jazz e fusion e mi interessava prendere quella direzione. Nel frattempo avevo anche suonato con un po’ di cover band di Satriani, Steve Vai ed artisti del genere. I Dream Theater erano nel pieno della notorietà ed il nome del Berklee cominciava a ronzarmi in testa. Quando mi sono reso conto che potevo solo smettere oppure avventurarmi altrove ho deciso di imbarcarmi sulla strada statunitense. Berklee College of Music è un istituto molto noto all’estero ed in un certo senso il fatto che fossero abituati ad accogliere studenti internazionali era incoraggiante. E poi volevo studiare ed imparare le cose sul serio. Ai tempi il conservatorio non era un’opzione seria per chi volesse suonare la musica che piaceva a me, e tanto meno le scuole private.
3. A chi ti ispiri quando componi? Quali sono i tuoi “cattivi maestri”?
Praticamente a tutti i grandi maestri. Più in particolare fino a qualche tempo fa avrei risposto Miles Davis, John Coltrane, Wayne Shorter, Dave Holland, più recentemente anche Kenny Wheeler ed Avishai Cohen (il bassista). Poi col tempo mi sono reso conto che in realtà sono sempre stato influenzato da tutto quello che sento. Letteralmente. Una volta capiti i principi su cui si fonda il jazz, la mia capacità di farmi influenzare e di attingere da sorgenti diverse si è espansa di molto, anche al di la dei generi. Oggi per quello che mi riguarda un’idea musicale è un’idea musicale, è il modo in cui questa viene eseguita che definisce a quale genere appartiene. Non ritengo che spaziare sia una corruzione.
4. Nella precedente risposta fai riferimento ai principi del Jazz, e fornisci una prima interpretazione di questa musica. Però chiarendo ulteriormente quali sono per te questi principi? O meglio che cos’ è per te il Jazz?
(foto di Vishesh Sharma) Quello che intendo è che cercando di mantenere una certa apertura mentale – ma anche emotiva – è possibile farsi influenzare da qualunque forma di musica e poi reinterpretarla attraverso la propria personalità o il proprio stile. Quello a cui mi riferisco con “principi” è un certo tipo di sonorità e di approccio. E’ un contesto dove i ruoli di tecnica ed espressività si fondono. C’è un sacco di roba oltre l’improvvisazione, che già di per se è un soggetto vasto. C’è un certo modo di trattare il ritmo, l’armonia, le dinamiche, il modo in cui la melodia è messa in relazione al resto degli elementi.
Questo è vero, in modi diversi, per tutti i generi musicali, inclusi Classica e Rock. Al costo di sembrare banale faccio il parallelo con la lingua parlata. Diverse lingue hanno sintassi, regole, sonorità, cadenze, organizzazione delle idee e, sorprendentemente, persino vocabolari diversi. Certe parole esistono in certe lingue ed in altre no, dipende dalla cultura in cui si sono evolute. Pero’ è possibile tradurre da una lingua all’altra. Ancora più importante, le lingue si evolvono per accomodare nuove idee.
Il jazz in sé tra l’altro è difficilmente confinabile in un unico genere, lo straight-ahead (o “tradizionale”, se preferisci), ed il contemporaneo forse sono i due insiemi più grandi, ma i sottogeneri sono innumerevoli, per così dire. La dipartita del jazz contemporaneo dallo straight-ahead è dovuta a generazioni di musicisti che hanno continuato a lavorare sull’espansione del vocabolario, sia individualmente sui propri strumenti sia sul loro ruolo in relazione al resto del gruppo (specialmente nella sezione ritmica). Miles è stato uno dei pricipali iniziatori di questo processo ma la lista è lunga.
Più personalmente, quello che mi ha sempre interessato del jazz è che mi aiuta a ridurre al minimo il divario ed i filtri tra quello che è dentro di me e quello che esce dal mio strumento o dagli strumenti per cui scrivo. E’ questo il motivo per cui ne sono stato attratto. E’ uno stile che garantisce molta libertà espressiva e che ha un ampio vocabolario.
5. Scendiamo nel particolare: dopo un esordio interessante e promettente, per il secondo album ‘Multitude’ hai rivoluzionato la formazione e hai coinvolto il famoso trombonista Robin Eubanks. Come è nata l’idea del disco e come è stato collaborare con questo gigante dello strumento?
I pezzi in ‘Night Dancers’ non erano nati con l’idea di fare un disco. Per la maggior parte erano progetti per il Berklee, il resto era musica che avevo scritto per me stesso. Quindi, anche se arrangiato ed orchestrato per funzionare bene come entità dotata di una personalità, il mio primo disco è una collezione, ed è nato in seguito ad una decisione presa a posteriori (dopo aver scritto i pezzi). Il motivo per cui ho voluto incidere ‘Night Dancers’ è che quel set di composizioni — che avevo suonato in diversi contesti — è una testimonianza di quei quattro anni. In un certo senso è la celebrazione della fine di un’epoca.
Il concetto dietro ‘Multitude’ è più maturo. Ho scritto da subito con un’idea ben precisa rispetto a che sound volevo e quale strumentazione utilizzare. Volevo fare un disco acustico e lavorare bene sugli arrangiamenti, pensare in voci multiple piuttosto che in singole melodie. Inizialmente avevo scritto tutto per quintetto. Robin Eubanks è entrato a far parte del progetto praticamente all’ultimo momento, così mi sono tuffato a scrivere le parti di trombone con una manciata di giorni a disposizione, lavorando negli spazi definiti dagli altri strumenti. Non proprio le condizioni ideali in cui scrivere per un tale maestro! Pero’ ha funzionato.
Suonare con gente come Robin Eubanks evidenzia quali sono le cose davvero importanti in musica, sia sul piano del suono che su quello delle scelte musicali. Ho imparato davvero molto da quella esperienza. Per l’occasione Mr. Eubanks è diventato un membro effettivo del gruppo ed ha suonato i miei pezzi senza egoismi, mettendosi al servizio della musica invece che comportandosi come una star. Questo ha confermato qualcosa a cui pensavo già da molto e che alle volte viene trascurato: un musicista dovrebbe concentrarsi su cos’è richiesto dalla musica piuttosto che cedere alle ragioni del proprio ego.
6. Dopo questa esperienza con chi vorresti collaborare?
Con tutti! Iperbole? Forse. Diciamo con qualunque musicista dotato di una propria voce ed una propria personalità.
7. A cosa stai lavorando in questo momento?
Sul piano personale sto scrivendo da un po’ di tempo un nuovo set di pezzi che dovrebbe diventare un disco. Il resto dei Characteristic Pitches, il gruppo con cui ho inciso ‘Multitude’, è a Boston, quindi metterò insieme un nuovo ensemble.
Dopo essermi trasferito a New York ho incontrato una serie di musicisti interessati al free. Suonare spesso in questo tipo di situazioni mi ha dato una prospettiva interessante anche per quello che riguarda il mio modo di scrivere, e sto sperimentando modi diversi di incorporare elementi di free jazz nelle cose più recenti a cui sto lavorando. Non abbandono l’idea della composizione e dell’arrangiamento perchè per puro gusto personale ritengo che questi siano elementi necessari, però sto provando diverse idee per oscurare i confini tra le due cose rimanendo fedele ai miei principi estetici. Su ‘Multitude’ avevo già iniziato ad utilizzare i soli in modo diverso rispetto a prima, quindi in un certo senso mi sto muovendo in avanti nella stessa direzione.
8. Da qui, quali sono i tuoi ascolti quotidiani? Generi?
Ascolto molto jazz, soprattutto quello contemporaneo. Alle volte ritorno alle origini con un po’ di rock anni ‘60/’70. Tengo gli occhi e le orecchie aperti su quello che succede nei generi più popolari per vedere in che direzione va il gusto del grande pubblico, e di tanto in tanto sento qualcuno che mi colpisce. Soprattutto cerco di andare a vedere più musica dal vivo possibile.
9. Come vivi la realtà musicale statunitense, in particolare newyorkese, a livello di contatti tra musicisti, locali dove poter suonare?
Musicalmente New York è una città incredibilmente attiva, ci sono tanti posti dove si fa musica dal vivo, ne scopro di nuovi in continuazione. Spesso sono locali piccoli dove pubblico e gruppo sono vicinissimi. Socializzare è nella natura della città, ed i musicisti spesso vanno a vedere musica dal vivo: il passo da li a stabilire nuove connessioni non è lungo.
Anche il rapporto tra musicisti e pubblico è diverso, in un certo senso i due piani sono più vicini. I musicisti sono più approcciabili ed il pubblico è più investito emotivamente.
Il livello musicale è molto alto, New York è allo stesso tempo una grande ispirazione ed una sfida notevole. Persino chi suona in strada o in metropolitana è spesso molto bravo. Aspetti il treno e sei intrattenuto da una performance di tutto rispetto: solo, duo, terzetto…
10. Come vedi la scena musicale americana dal tuo punto di vista di “italiano espatriato”?
La cosa che mi ha colpito fin da subito è il rapporto semplice che gli Americani hanno con la musica. Pochi misticismi. Decidono cosa vogliono fare e poi lo fanno. Onestamente non posso parlare per tutti gli Stati Uniti – è un paese grande e variegato – quindi mi riferisco solo a quello che ho visto a Boston e NYC. Tenendo a mente che è una generalizzazione, mi colpisce spesso il rapporto tra musicisti, che tendono ad incoraggiarsi a vicenda o quantomeno a rispettarsi.
La musica dal vivo è piuttosto presente nella cultura Americana. Per esempio, è normale che negli show televisivi serali ci siano regolarmente ospiti musicali e una band stabile.
Altra cosa interessante è la varietà di associazioni filantropiche che conseguono lo scopo di supportare artisti nazionali meritevoli attraverso premi, finanziamenti, garantendo l’accesso ad istituti educativi di prestigio e così via. Queste cose possono fare la differenza nella vita di un giovane artista e allo stesso tempo promuovono indirettamente l’idea che le arti sono importanti. Non sarebbe male se succedesse anche in Italia.
Più specificamente al mondo del jazz tra le tante cose mi piace il principio per cui chi è sulla scena da molto tempo non è disturbato dall’arrivo di nuovi personaggi, al contrario, spesso vecchia guardia e nuovi arrivati fanno insieme cose di valore. Quello che importa è la qualità del contributo musicale portato da chi suona. Del resto se negli anni ’60 Miles non avesse posato lo sguardo su quattro giovanissimi musicisti di talento avrebbe probabilmente continuato a fare dischi di successo, però l’evoluzione del jazz sarebbe stata radicalmente diversa.
11. Come vedi la scena musicale italiana dal tuo punto di vista di “americano acquisito”?
Non è una domanda facile. Nei brevi periodi in cui sono in Italia è spesso per vacanza e per rivedere famiglia ed affetti. Non vengo da una grande città quindi la mia prospettiva è inevitabilmente distorta.
Da quello che mi sembra di capire c’è una ripresa del jazz con la nuova generazione. Purtroppo però sento anche dire che in generale non c’è molta richiesta per la musica dal vivo, ed i concerti jazz sono ritenuti in un certo senso cosa elitaria. Temo che in parte la responsabilità sia dei musicisti stessi che, forse, negli anni si sono coperti di un’aura di misticismo magari utile sul momento per ottenere ammirazione, ma che sul lungo termine ha creato una frattura tra il pubblico e questa “musica inaccessibile”.
Mi arrivano anche voci riguardo la scarsità di posti dove suonare o dove i musicisti possano scambiare idee. Eppure in Italia si organizza un gran numero di festival jazz che coinvolgono anche artisti stranieri di prestigio. Fortunatamente questi eventi hanno molto successo e sono noti anche all’estero, quindi probabilmente il problema è su scala locale.
Un grande pregio Italiano è che si fabbricano strumenti musicali di grande qualità. Credo che sia un’eredità delle nostre origini artigiane. La fisarmonica italiana per sempio, come anche gli strumenti ad arco (violino, contrabbasso, ecc.) sono considerati di grande pregio in America. Io suono piatti UFIP e funzionano davvero bene, sia per me che per i musicisti con cui suono.
12. La classica domanda finale a cui non ci si può esimere: come vedi il tuo futuro, musica, vita, tutto il resto?
Continuo a lavorare costantemente sulla batteria e sul miglioramento del mio stile compositivo. Mantengo un interesse attivo nell’imparare sempre di più sulla musica. Suono con più gente possibile e cerco di farmi ispirare e di essere un’ispirazione a mia volta.
Cerco anche di progredire come persona a tutto tondo. Il resto si vedrà. Dopotutto, come esseri umani, il massimo che possiamo fare è il nostro meglio, no?
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