(Domino 2001)
Deve essere una strana vita creativa quella del trio inglese Fridge. Come ti puoi sentire quando ti accorgi che la tua band rischia di essere surclassata proprio da uno dei tuoi collaboratori?
Dopo il notevole “Dialogue”, il loro bassista Kieran Hebden è infatti riuscito a confezionare sempre a nome Four Tet un prodotto di ancora maggiore spessore. E questo grazie ad una formula del tutto personale ed efficacissima.
Mentre “Dialogue” trovava i suoi interlocutori nelle sonorità di Mouse on Mars o To Rococo Rot, il nuovo “Pause” colpisce fin dal primissimo ascolto proprio per la dimensione intimista e individuale dietro cui si trincera. Se il primo era appunto dialogo, il nuovo lavoro è l’opportuna pausa di riflessione per fermarsi a contemplare ciò che si è venuto accumulando lungo il proprio percorso musicale-compositivo. Il disco sembra l’equivalente di un bauletto contenente: piccole idee incomplete, samples elettronici di vario tipo e morbidi micro-riff di strumenti a corde spesso soltanto abbozzati. Cose messe lì da chissà quanto tempo, piccoli spunti per progetti che danno l’idea di essere stati accarezzati soltanto in privato.
Ciononostante “Pause” non dà neanche per un solo istante l’impressione di essere soltanto materiale assemblato. Hebden insegue armonie di pace pervasiva, sospensioni etno-ambient ricercate e ben precise, e lo fa proprio attraverso la varietà di tradizioni musicali cui il disco attinge. Ci sono ancora il jazz cosmico e gli accattivanti ritmi drum’n’bass di “Dialogue”, ma questa volta restano in secondo piano. “Pause” preferisce avvolgerci con cullanti atmosfere ambientali intessute soprattutto da strumenti a corda quali sitar, salterio e chitarre acustiche digitalmente rimescolate (vedi Everything is alright su tutte). Le pur numerose fonti tecnologiche utilizzate infatti, servono qui più che altro ad arricchire l’indolente piacere in cui scivoliamo lungo l’ascolto, invece di distrarci o ricordarci che, in definitiva e comunque, di un disco di elettronica si tratta. E’ una delle rare occasioni in cui i suoni digitalizzati rendono il clima paradossalmente “meno elettronico”. E la giocosità naif dei suoni computerizzati emerge pienamente solo negli intermezzi, o nell’ultima irresistibile Hilarious movie of the 90’s.
E’ questo il segreto di “Pause”, quel suo giocare proprio con la sua essenza elettrosintetica. Una fibrillazione interna che ne fa un disco eccezionale, che regala momenti di perplessità estatica che vorresti fermare più a lungo (Parks) e in cui vorresti fluttuare all’infinito (Twenty Three). Sensazioni che ineluttabilmente mi portano a ripremere play alla fine di ogni ascolto.
Il mio consiglio è quindi di godervi ad occhi chiusi il vostro momento di pausa. Il cantuccio di Kieran è davvero… davvero… troppo confortevole.
Voto: 9
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