Sono trascorsi quattro anni da quando Josh Rouse ha esordito con il folgorante “Dressed up like Nebraska” (sorta di omaggio al suo Stato natale – Rouse risiede ora a Nashville, Tennessee), disco reso a dir poco epocale da un vero e proprio inno quale Suburban sweetheart e da intense e dolorose ballate come Invisibile, Flair e Lavina, e da allora il Nostro si è rapidamente imposto agli osservatori più attenti come uno dei più bei segreti del panorama cantautorale americano recente.
Con la pubblicazione del successivo “Home” e di un ep, intitolato “Chester”, frutto della collaborazione con Kurt Wagner dei Lambchop, la sua miscela di power pop, folk e un tocco di country ha catturato l’attenzione di molti tra gli addetti ai lavori e, per quanto Rouse registri ancora per una etichetta indipendente, gli ha comunque permesso di guadagnarsi di tanto in tanto un posto al sole (e un po’ di quattrini, che non guastano mai), con comparizioni nelle colonne sonore di alcuni, altrimenti trascurabili, serial americani (l’unico dei quali ad essere conosciuto dalle nostre parti è “Party of five”) e produzioni cinematografiche di grido (Josh Rouse è stato anche incluso nella colonna sonora di “Vanilla Sky” di Cameron Crowe).
Il nuovo “Under cold blue stars”, da un lato, è una sorta di concept album, le cui canzoni delineano vagamente le vicende, ambientate nell’America degli anni Cinquanta, di una giovane coppia appena sposata, che, poco dopo il matrimonio, si ritrova a dover traslocare dal Midwest, terra d’origine, nell’arretrato sud degli Stati Uniti, dove lei ha ereditato una piccola fattoria; dall’altro, rappresenta anche un passo in avanti nell’evoluzione artistica di Rouse. L’album è stato infatti prodotto da Roger Moutenot, figura di spicco della “Hoboken scene”, noto ai più per aver lavorato, tra gli altri, con Freedy Johnston e, soprattutto, con gli Yo La Tengo. Il suo impatto sul suono di Rouse è a tratti evidente, laddove il tessuto delle composizioni abbandona il minimalismo che aveva contrassegnato gli esordi e si arricchisce, mano a mano che accompagna la narrazione di cui si diceva or ora, di tastiere, campionature d’archi, loops e fiati.
Se l’iniziale Nothing gives me pleasure like you do è una sincera e dolcissima dichiarazione d’amore (“Don’t you know/nothing gives me pleasure like you do/nothing has the strength to pull me through/I’ve always been the one to follow you”) in puro stile Big Star/Raspberries/Badfinger, il suono va in seguito facendosi più complesso, mentre Josh Rouse canta (nell’ariosa e solare Miracle) la cronistoria del viaggio della giovane coppia alla volta del sud, verso un nuovo mondo, una nuova vita, le incognite e, nonostante tutto, la speranza (“Wake up, we’re almost there/just ten more miles it was such an affair/that in all our lives we’ve waited for this day”) i primi screzi tra i due giovani sposi (nella tetra Christmas with Jesus), dovuti alla difficoltà di lui ad accettare il profondo sentimento religioso di lei (“And it’s so very hard/to ask for a part in your Christmas”); le difficoltà che lui incontra nell’accettare la nuova fase della propria esistenza dovendo sacrificare i propri spazi e la propria passione per la musica alla famiglia (la title-track); l’infedeltà di lei (Ugly Stories); la risoluzione (in Feeling No Pain) di essere coerenti fino in fondo con i propri sentimenti, anche nelle circostanze più buie ed avverse, (“My heart is wide open/and somehow everything falls into place/and it’s love”) e la determinazione da parte di entrambi, nonostante gli errori, le inevitabili differenze e le reciproche incomprensioni, di non lasciare mai nulla di intentato e di far comunque funzionare le cose (Women and Men).
L’intreccio tra narrazione e arrangiamenti funziona alla perfezione e a tratti riesce difficile dire se si stia leggendo un raccolta di racconti dal sapore tutto carveriano o ascoltando dell’ottima musica cantautorale . L’ennesima prova di grande spessore di questo giovane talento dal quale ci aspettiamo ancora grandi cose.
Voto: 8
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Autore: acrestani@telemar.it