(Truck Records 2002)
Sarebbe ora che qualcuno facesse notare agli anglosassoni, ‘freddi e riservati’ per tradizione, che il loro sfornare a pieno ritmo dischi inguaribilmente sognanti per innamorati cronici alla lunga potrebbe corrompere l’immagine orgogliosamente esportata all’estero di: temibili hooligans, rissosi bevitori di Sout, ironici intellettuali ultra self-conscious. Comincio a temere che di questo passo ce li ritroveremo a esclamare “Kawwaaaiii!!” per ogni dove come ogni ragazzina nipponica di fronte al peluche dei suoi sogni…
Se per caso comunque in questa fase della vostra vita il vostro cuore si trova ‘in grazia di Dio’ e spasimate per qualcuno (e sempre nel caso consideriate pateticamente un dono lo stato d’animo descritto pocanzi) allora riuscirete a gustarvi senza riserve l’ennesimo disco pop ‘troppo cullante’, ‘troppo carino’, ‘troppo struggentemente lezioso’.
“Don’t Bring Me Down” è infatti uno di quei dischi che fanno male al cuore. Robin Bennet e soci riescono davvero nel miracolo di risultare coinvolgenti con nient’altro che tradizionali canzoni guitar folk-oriented (la vena psichedelica appare soltanto quà e là come nell’omonima Don’t Bring Me Down ed è sempre comunque al servizio della stordente melodia di fondo). La sensibilità musicale di Robin (già messa alla prova come boss della sua etichetta Truck Records licenziando bands come Four Storeys o Fonda 500) basta e avanza per dare nuova forza a un vecchio proclama: voce e chitarra hanno ancora qualcos(in)a da dire nell’era post-Smiths. Disco che si ferma quindi davvero a un passo dalla perfezione quello dei Goldrush, con canzoni a elettricità razionata come Pioneers (immaginate degli Starsailor meno lamentosi), fluidi saliscendi vocali come quelli di Wide Open Sky o Bright Eyes che ricordano le cose migliori degli Automobile o l’insuperabile Best Intentions (leggi: laddove gli Embrace non sono mai riusciti).
Imperfetto dicevo, ma soltanto perché le sbavature (trascurabili in altre parti) arrivano soltanto alla fine con faziosi echi Radioheadiani tutto sommato superflui in un disco del genere. Il bello dell’album risiede infatti nella sua sobrietà, nel suo camuffare i cedimenti svenevoli, nel suo dolce disincanto, nonostante gli ascoltatori ne faranno un uso esattamente opposto. Lunga vita ai fraintendimenti e alle contraddizioni dunque… anche quelle di cui parlavo all’inizio e per le quali continuo a gustarmi il sornione e fibrillante atteggiamento truly British…
Voto: 8
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