(Parlophone 2002)
Che un disco dei Supergrass possa stravolgere irrimediabilmente la vita di qualcuno credo sia qualcosa a cui neanche Gaz Coombes e soci abbiano mai creduto. I fans della band di Oxford non ci badano e continuano sacrosantamente a goderseli come una gazzosa effervescente d’estate o il loro chewingum preferito. Perché avrebbero dovuto crederci invece i cosiddetti ‘critici’?
Eppure si è vociferato da più parti che il nuovo Supergrass, dio mio, non è venuto a dirci proprio nulla di nuovo. Credo dipenda più che altro dal valore che si dà alla parola ‘nuovo’… specie in un contesto come questo, in cui le uniche idee che capita di incontrare tra quelle messe per iscritto, riguardano proprio i bizzarri collegamenti operati sul ‘già sentito’ … d’altronde poi se gli Strokes, gli Hives o i Datsuns sono ‘i nuovi —– (riempite col nome di qualsiasi band meriti da voi un affronto)’, i Supergrass sono effettivamente (grazie a dio) dei vecchi rincoglioniti. Proprio perché a partire da “In it for the Money”, quando tutti gli altri andavano a fare bungee jumping, loro se ne sono andati in biblioteca. Hanno rispolverato molta roba sixties e seventies prima maniera (primo Bowie, primi Stones, primi T Rex) e se li sono goduti al riparo dal brusìo della folla (“Velvet Goldmine” è stato in fondo poco più che un flop cinematografico). In “Life on Other Planets” le loro ‘letture’ acquistano finalmente… non dico consistenza… ma piuttosto ‘vita propria’; vengono fatte collidere col presente, stravolte, reinventate al fine di confezionare un album fatto di mille pezzi a incastro (una sorta di DNA ricombinante del rock). Alcune configurazioni sono lì bell’e pronte: Seen the Light è puro Marc Bolan così come Never Done Anything Like that Before
e LA Song sono tutto sommato nient’altro che coinvolgenti reinterpretazioni dei Blur più tirati. Altre vanno invece certosinamente ricostruite: provate ad assaggiare l’intero impasto fatto coi fraseggi Smithsiani delle strofe di Brecon Beacons, col frizzante ritornello garage di Evening of the Day (quello che avrebbero potuto fare i Libertines se avessero posseduto un minimo di personalità) accompagnato da un finale degno dei migliori Style Council e con la sbarazzina tre-note-che-non-potrai-fare-a-meno-di-canticchiare Grace (scelta per il videopclip ma di certo non interamente rappresentativa dell’album).
E provate poi a degustare come il tutto scorra in modo talmente fluido da rendere inutile la selezione dei due o tre brani di spicco….
Insomma, non c’è davvero un singolo brano che induca a premere quell’odiosa funzione chiamata ‘skip’ sul vostro lettore (bisogna ammettere, sfidando le ire degli oltranzisti dell’hi-tech, che il vinile da questo punto di vista rendeva molta più giustizia alla quantità di noia che una selezione poco azzeccata poteva procurare…).
Una semplice calcolo da cd-generation credo quindi varrà più di qualsiasi giudizio di valore: con quanti altri dischi vi capita?
Voto: 8
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