(Bella Union / Wide / 2003)
Diciamolo pure: approcciarsi a un disco dei Dirty Three non è mai cosa semplice. Al primo ascolto ci si perde sempre in quel magma kaotico, privo di ogni sicuro appiglio, imbastito dal terzetto australiano. È solo ascoltando e riascoltando con caparbietà che a un certo punto, si chiude gli occhi e si comincia a entrare in sintonia con la musica e col mondo sospeso dei Dirty. E cioè quando si lascia da parte ogni inconscia ma altrettanto naturale aspettativa di cercare nella musica refrain, ritornelli, melodie e/o qualsiasi schema della cosiddetta forma-canzone che si incomincia ad apprezzare davvero il loro genio. Perché la musica dei tre gode veramente di una libertà speciale, di quelle che permettono di eludere ogni regola e che consentono un’espressione diretta, senza formule o mediazioni. Ecco che anche stavolta quindi non c’è traccia della voce (che risulterebbe tra l’altro superflua), ma sono solo gli strumenti a parlare, come fossero animati di vita propria, intenti a descrivere i moti dell’animo dei tre: chitarra e batteria che abbozzano panorami interiori sopra ai quali si erge maestosamente il violino di Ellis, ricco di pathos come non mai. Musica profonda, che mette a nudo l’intimità e gli stati d’animo dei suoi autori, con naturalezza e tanta classe. Per anime sofisticate e sensibili.
Voto: 8
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