(Pax Recording 2002)
Provare a descrivere il lavoro di Ernesto Diaz Infante si rivela essere impresa
assai difficile dato l’elevato senso di spaesamento che provoca l’ascolto della
sua opera, verrebbe quasi voglia di catalogarlo come un cantautore bizzarro ed
assolutamente dropout ma i particolari infiniti con cui condisce il tutto
lo rendono molto più vicino a qualcosa di assolutamente incubico e legato
a scene musicali ben più impervie e tempestose che all’universo cantautoriale.
Chitarra, voce strascicata e cupa quando c’è, infiniti rumori che presumiamo
domestici, accenni improvvisativi talvolta; silenzi lunghi e protratti che odorano
di quiete ossessioni e di solitudine. In ordine sparso come possibili referenti
si potrebbero citare nomi fra i più disparati, a me personalmente in alcuni
frangenti ha ricordato Steve Roden per la capacità di ricreare ambienti
minimali pregni di una capacità visionaria ed evocativa notevole, John
Duncan per l’assoluta immobilità tesa a creare un clima di tensione
notevole ma si potrebbe anche citare il lavoro svolto in coppia da M. J. Harris
e Martyn Bates nella serie “Murder Ballads” per l’utilizzo
della voce su forme sonore tanto difficili e poi per concludere come non citare
il primo Nick Cave per il trattenuto senso di collasso psichico che sembra
regnare su tutto?
Difficile, veramente difficile ed affascinante di quel fascino che ti vien da
dire che forse soltanto i geni possiedono, la capacità di dare un’amalgama
coerente a tutte le varie proposte è realmente sorprendente e quando parte
‘A Ride to Cuba with Martin Sheen‘ sono quasi sicuro di trovarmi per l’appunto
di fronte ad un piccolo genio, una voce nera come pece distesa su pochi accordi
si lascia tentare da un loop ritmico deforme su cui si pianta un campione mongoloide
di chitarra memore dello Snakefinger più fuori di testa. E’ materiale
questo con cui bisogna andar cauti perchè ti fotte il cervello, ti sembra
di poterlo catalogare come un depresso cronico e poi invece ti viene il sospetto
che il buon Ernesto se la stia divertendo da matti poichè su tutto regna
una indefinibile e caustica ironia interpretativa che rende l’opera ancor più
inclassificabile. Viene il sospetto che quelle che sembrano canzoni noir
siano in realtà descrizioni divertite di ancor più terribili atti
di violenza quotidiana come rovesciarsi addosso il caffè bollente di domenica
mattina, provate a questo riguardo ‘of Acceleration and Enunciation‘. Di
una follia assolutamente incontrollabile in continua espansione con un carico
di angoscia esistenziale talmente profonda eppur molto ben gestita che gli Angels
of Light se la sognano, nell’ultima traccia passa una moto si chiude una porta
ed il tutto finisce. Il silenzio se possibile incute ancor più timore….
Voto: 8
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