(Samadhisound 2003)
L’ascolto del nuovo disco di David Sylvian non può che destare stupore, se non per il capolavoro, che non esiste, sicuramente per il flop che è stato miracolosamente evitato nonostante le sensazioni suscitate dal battage preliminare, e dall’accoglienza noiosamente entusiasta, lasciassero presupporre il contrario. Ho cercato di ascoltare il disco ripetutamente, e attentamente, per evitare un giudizio affrettato e suscettibile di superficialità, in un senso o nell’altro, e ad ogni nuovo ascolto si è ripresentata con regolarità la domanda: “Blemish” è veramente un disco coraggioso? La risposta non può essere univoca, e se consideriamo la scelta di collaboratori come Derek Bailey e Christian Fennesz – ma solo in quattro degli otto brani che in realtà corrispondono a soli 13 minuti su 43 minuti complessivi – sicuramente lo è. Se invece guardiamo alla sostanza, cioè alla struttura dei brani e al modo in cui vengono cantati, direi proprio di no; tutt’altro, si tratta di uno dei dischi più conservatori pubblicati dall’ex vocalist dei Japan. Ma la chitarra di Bailey? E l’arrangiamento di Fennesz? Sinceramente trovo che il peso di queste componenti, nel risultato complessivo, sia pressoché nullo, laddove veramente importante è solo la voce di Sylvian e l’impostazione da crooner malinconico, e romantico, che a quella voce viene impressa. Questo elemento, così caratteristico, non subisce nessuna scalfittura, nessun opera di revisione, nessun oltraggio, e resta quale impassibile elemento di continuità in grado di rassicurare le schiere degli aficionados. Così avviene anche per la struttura delle canzoni, che si ripete sulla falsariga di un modello ormai consolidato. Cosa voglio dire, semplicemente che “Blemish” è un disco che piacerà a chi piace David Sylvian e non piacerà a quanti Sylvian non è mai piaciuto; quindi non ha nessuna delle caratteristiche attribuibili all’atto di coraggio, cioè creare scompiglio nell’ascoltatore, spingerlo a porsi delle domande, trasmettergli uno stato di insicurezza, trascinarlo fuori dal guscio, fargli salire la temperatura e lasciarlo, attonito, in preda ai brividi. No, direi che “Blemish” è esattamente l’opposto di tutto questo. Quindi come inquadrarlo nella discografia del nostro? Per fare ciò è ancora presto e vanno attese le mosse successive. Va verificato se il cantante ha intenzione di forzare in questa direzione, fino a rompere quelle barriere che “Blemish” non ha neppure intaccato, oppure se esso è destinato a restare un episodio isolato. Nel primo caso lo ricorderemo come un disco di transizione, un timido tentativo volto verso ben più interessanti soluzioni, nel secondo caso resterà invece una improduttiva curiosità all’interno di una discografia le cui fasi salienti si annidano in tutt’altri episodi. Forse lo svaluto eccessivamente ma quattro stelle mi sembrano davvero troppe. (no ©)
Voto: 7
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Autore: sos.pesa@tin.it