(Interscope Records 2005)
Labile è il confine tra eccessi indie rock e sfruttare invece il mercato per realizzare un album che tutti possono allegramente chiamare epico, quando non lo è affatto. Allora, gli …And You Will Know Us By The Trail of Dead hanno sempre dimostrato di essere una band che guardava al futuro, e di possedere un’ambizione non comune. E questo fin dal loro primo lavoro stranamente misterioso, mentre ‘Madonna’ era già più aperto e riusciva ad interlineare il loro rock incendiario con una certa dose di ‘arte’ e strumenti atipici, senza risultare però presuntuoso. Su ‘Source Codes & Tags’ sappiamo tutti come è andata, piuttosto devo sottolineare come mi era rimasto indigesto l’EP ‘Secrets Of Elana’s Tomb’ che preferiva canzoni meno complesse, più accessibili al primo ascolto e con poco spessore. Per fortuna ‘Worlds Apart’ non continua quel discorso, ma invece i quattro (anzi, ormai direi tre, visto che Neil Busch sembra essere stato messo in disparte) hanno preferito puntare ancora di più in alto.
Il problema, però, è che l’epicità non è qualcosa che si può fabbricare o pensare a priori, nè tantomeno si possono allungare i tempi di lavoro su un album in modo da aggiustare tutto fino all’ultimo particolare. I Trail of Dead purtroppo stavolta sono andati oltre, e bisogna subito togliersi di mezzo qualcosa che è palese fin dal primo ascolto: ‘Worlds Apart’ è il peggior album dei Trails.
Detto ciò, chiariamo che non è affatto malvagio di per sè, anzi fosse stato di una band diversa sarebbe stato accolto in maniera molto più favorevole. Più di una volta, però, durante l’ascolto mi è corso il pensiero al glam rock e… agli Oasis. Eh ebbene sì, effettivamente non volevo crederci neanche io, ma la mia sensazione è stata confermata anche da altri.
Sensazioni a parte, il mio punto di vista sull’album è comunque ben lontano dall’essere meramente critico e sto sforzandomi anche di non sfociare nel solito bisunto ‘fan di vecchia data deluso’; ma davvero non mi sembra che la strada intrapresa dai Trails sia saggia. Prima il fascino dei quattro texani era riposto nel nascondere, nel seppellire i momenti più belli sotto muri di rumore, e si richiedeva estrema attenzione per essere in grado di estrapolare i testi e le melodie.
Questa volta invece i Trails preferiscono presentarsi a viso aperto, non si nascondono e l’estrema attenzione dunque la possiamo pure abbandonare. La prima canzone, Will You Smile Again, ne è un esempio perfetto: comincia molto potente e sembra non preludere alcun cambiamento di rotta, ma poi comincia ad entrare un clarinetto (eh?) e poi via con quattro minuti di sola batteria e chitarra ‘muta’ con Conrad che canta sopra. Ma perché bisogna ascoltare sette minuti di seminoia per un minuto iniziale e trenta secondi finali solamente degni di nota? Probabilmente potremmo dire che sono furbi a fare questi giochetti perversi ma, forzature a parte, un pezzo del genere è solo che frustrante.
Il singolo poi è alquanto ingiudicabile, per quanto abbia un testo piuttosto mirato (ma alquanto banale alla fine), non si riesce a capire davvero da dove possa spuntare una canzonetta del genere. Già, canzonetta, altro non è, già quell’inizio con ‘well, fuck you man!’ preclude ad un’ironia alquanto atipica e il resto con quei poveri arpeggi non riesce minimamente a decollare. Momenti come Summer Of ’91 o The Rest Will Follow invece suonano convincenti abbastanza, ma in qualche modo sembrano già sentiti e ben poco sorprendenti. Per fortuna ogni tanto ci si risolleva con pezzi davvero positivi come Let It Dive (sicuramente più adeguata come scelta per un singolo) o Caterwaul, pezzi di qualità perlomeno reminescente dei classici della band.
Ma il difetto di ‘Worlds Apart’ diventa palese quando si arriva a All White. E’ per caso arrivato dalle nebbie del tempo un Roger Waters a mettere su i coretti di donnine che fanno ‘aaaaaaaaah’? Oppure Conrad ha trovato un ‘The Wall’ da qualche parte e ha detto ‘bello, dobbiamo fare qualcosa di simile’?. No, un pezzo del genere proprio se ne doveva rimanere nel cestino. E così anche gli eccessi prog rock di A Classic Arts Showcase o le masturbazioni waltzeresche di To Russia, My Homeland suonano proprio fuori luogo; oppure come Conrad gioca con l’ascoltatore quando fa partire The Best con un potente riff echeggiante, e poi parte una bell’ammosciatura con pianoforte, acustica, un bel ritmo quasi-melò, risate in sottofondo e un testo abbastanza inspido. Per tacere del finale con i pianti del donnino, ma poco poco ci stessero pigliando per il culo?
Comunque, eccezioni a parte, il materiale non è generalmente così malvagio, solo che avrebbe fruttato molto di più senza tutta questa eccessiva voglia di ‘epico’ che lo circonda, senza arrangiamenti orchestrali proprio futili, senza pianoforti qui e lì, senza coretti. Perfino Jason Reece, un tempo vera benzina della band e cantante di diversi pezzi, sembra ormai in secondo piano e ridotto a mero collaboratore. Sarebbero bastati solo i quattro membri della band e basta, perché andarsi forzatamente a cercare l’epico?
Ma insomma, suppongo che chi ha ascoltato a sufficienza i trascorsi della band sarà in grado di distinguere. I testi invece non sembrano essere cambiati poi molto, sempre ispirati e poetici al punto giusto su argomenti ‘personali’ e alquanto banali su problemi mondani. Nota altrettanto positiva anche per gli artwork di Conrad, davvero epici e degni di un poster; e così pure è interessante la versione ‘deluxe’ dell’album con solito DVD con diversi contenuti come il making of dell’album, il video di All Saints Day e gli artwork originali. Inoltre sul cd deluxe sono presenti due tracce finali bonus, (che in questo caso tranquillizzano il fan di vecchia data!), ovvero due versioni live di Aged Dolls e Richter Scale Madness, di buona qualità ma niente di speciale.
Voto: 7
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