Bellini ‘Small Stones’

 

(Temporary
Residence/Wide 2005)

C’era un tempo, diciamo
metà anni 90 in cui il cosiddetto noise rock dominava la scena
musicale underground, con labels quali Touch & Go, Amphetamine
Reptile, Relapse, che infestavano l’etere con i loro frutti
dinamitardi, e Steve Albini ad infiammare gli animi e i corpi
di noi poveri drogati di musica allo stadio terminale. Quel mondo,
per lo più in bianco e nero, con steccati ben definiti a
delimitare alt-rock e tutto il resto, in parte è morto,
spazzato via da un approccio alla musica che si disperso in mille
rivoli, ha accumulato contaminazioni su contaminazioni, e generato
frutti che reputavamo immangiabili. Agostino e Giovanna, prima Uzeda
e ora Bellini, a quel mondo
appartengono completamente, ma non sembrano avere, per fortuna, il
physique du role per impersonare dei tristi reduci
sopravvissuti. Sono pochi gli artisti che possono vantare la loro
coerenza e integrità, in un discorso musicale (fatto anche di
promozione/produzione/booking attraverso la cooperativa Indigena che
ha contribuito non poco a smuovere le acque nella loro/mia Catania)
sempre cristallino e poco avvezzo ai compromessi. Orfani di Damon
Che, glorioso, ma a quanto pare poco affidabile caratterialmente dati
i risvolti tragicomici che hanno portato alla sua uscita dal gruppo,
batterista degli altrettanto gloriosi Don Caballero. Per
fortuna il
progetto Bellini resta in piedi grazie al pronto rimpiazzo con
Alex Fleisig (Girls Against Boys), mentre Albini rimane ben
saldo alla produzione artistica, fornendo il solito suono pulito,
squadrato, “right on your face”. Sempre uguali, con le robuste,
inestirpabili radici piantate nel suono Uzeda/Shellac, ma
anche un po’ diversi. Traspare subito un’attitudine più
meditata, composta, a tratti quasi melodica (ma non dimentichiamoci
con chi abbiamo a che fare), che non smussa i classici contorni
spigolosi del loro suono, tutto urgenza espressiva, scossoni,
sussulti e implosione emotiva, ma aggiunge, se possibile, un tocco di
pathos. Un’esempio di ciò è reso ben evidente dal
primo brano, l’ottima Room Number Five, un alternarsi di
rallentamenti in slow motion e grandiosi crescendi ritmici con
Giovanna persa dietro le sue personali visioni, dove traspare un
palpabile, a stento trattenuto senso di malinconia e tristezza
rabbiosa, rafforzato da parole quali “I shut my eyes and the world
drops dead”. Stesso feeling anche in The Exact Distance To The
Stars
, all’inizo dolcemente indie-pop per poi inerpicarsi su un
robusto midtempo mentre sullo sfondo ancora odore di cicatrici e
ferite che emergono dal subconscio. Ancora più riflessiva Not
Any Man
, impregnata di acredine e dal procedere insolitamente
pacato. The Buffalo Song, invece è puro Uzeda style,
quasi un’estratto dall’insuperabile ‘Different Section Wires’,
con la chitarra ad innalzare un muro di rifferama
spiraliforme, la sezione ritmica che tenta di aprirvi una breccia e la voce preda della furia degli elementi.
C’è ovunque aria di vissuto, di polvere, di chilometri
macinati, di ricordi, di emozioni ancora vive, di lacrime che solcano
il viso. Cos’altro aggiungere? Passa il tempo, ma le armi non si
spuntano, anzi diventano sempre più efficienti, con Agostino
che sembra poter andar avanti a sfornare i suoi riffs
geometricamente perfetti all’infinito, e Giovanna dotata di una di
quelle voci riconoscibili ancora prima di aprire bocca. Ci sono pochi
gruppi propriamente rock che non mi stancherò mai di
ascoltare, gli Ex forse, Uzeda/Bellini
sicuramente. Massimo rispetto.

Voto: 7

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