(Polydor 2007)
Posso dire senza cambiare idea poco dopo che il mio gruppo preferito sono (stati) gli Stone Roses.
Posso dire senza paura che gli Stone Roses restano i caposcuola di quella che negli anni ’90 fu l’esplosione di un genere nostrano come il brit- pop corroborato da sbavature rave, dance, già peraltro presenti nei dischi degli Happy Mondays, portato in auge dai sobborghi meridionali di Manchester città lambita dal fiume Mersey, la stessa acqua che bagna la città di Liverpool.
Dicevamo, gli Stone Roses.
Inutile dire che dopo l’uscita del primo singolo, So Young del 1985 saranno in molti ad imitarne le movenze, gli abiti, l’approccio easy alla musica come ai testi, quel modo morbido e vagamente danzereccio di Ian Brown di stare sul palco. Oasis, Kula Shaker, Pulp, Blur solo per citare i più altisonanti.
The Stone Roses è l’album manifesto dell’intera scena “Madchester”, la summer of love formato ridotto dell’era post- Joy Division, post- suicidio dell’inquietante Ian Curtis.
Dopo lo sbarco il lunario la loro sarà una carriera gloriosa, segnata dalla discontinuità, da apici e da parabole discendenti.
Ci hanno regalato un’esigua manciata di dischi bellissimi, che contengono in nuce l’essenza più genuina dello spirito di quegli anni: agitatori sonici come Tony Wilson , dance e rock, giri di boa musicali che si prendono sotto braccio dagli ’80 in poi, sogni di deejayismo, ma più di tutti l’Hacienda, locale storico in cui performarono i Nostri ( e moltissimi altri) , ovvero il nuovo pane del suddetto Wilson, genio che purtroppo, uno schifosissimo cancro c’ha portato via solo qualche mese fa.
L’Hacienda era diventata meta per i pellegrini del rock, del groove, dei New Order, degli Smiths, della scena Madchester, dell’ecstasy e degli smile e, nel frattempo, della gay culture. Aveva tirato fuori dal letto anche i più derelitti, quelli con la spina nel fianco, al ritmo di house e rock, connubio di due generi incrociatisi in quei corridoi e da quei corridoi uniti indissolubilmente.
Prima di andarsene per sempre, gli Stone Roses avevano dimostrato che un post- Smiths era possibile pur se compressi tra il 24 hours party people e Panic. ‘The Second Coming’ fu il loro de profundis, condito da un delirante comunicato che recitava: “L’America non ci merita ancora”. Gli Stone Roses si dimenticano per sempre di essere gruppo sfasciandosi definitivamente per le solite, annose noie manageriali / legali.
Tutto questo per dire che il quinto disco di Ian Brown, ‘The world is yours’ ( titolo peraltro banalissimo) rappresenta un autentico tradimento rispetto a tutto questo oppure il modo più coerente di far evolvere la propria musica, “impegnata” dal perenne uso degli archi.
E così Eternal flame è esperimento casalingo di ‘drama’ hip hop, senza però perdere la velleità di scimmiottare certi singoli dell’ultimo Paul Weller (Sister Rose), o del Jamiroquai (Save us) d’inizio secolo. Ma con più malizia, verbosità, pesantezza, edulcorazione. Disco inutilmente prolisso.
Voto: 4
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