(Nonesuch 2008)
La storia discografica dei Magnetic Fields comincia nel lontano 1990, quando Stephen Merritt, giovane omosessuale nativo di Boston ma cresciuto tra Hawaii, Germania, Tennessee e Florida, fa la sua comparsa sul mercato discografico con “Distant Plastic Trees”, lavoro all’insegna di un synth-pop stravagante ed eccentrico, in cui le parti vocali sono affidate all’amica Susan Anway. A quell’esordio, seguono “The Wayward Bus” (1991), i capolavori “Holiday” (1994) e “The Charm Of The Highway Strip” (1994), “Get Lost” (1995), il monumentale “69 Love Songs” (1999), “i” (2004) e l’ultimo “Distortion” (2008), tutti caratterizzati da una brillante miscela di elettronica, pop anni ’60 (Brian Wilson e Van Dyke Parks), Nashville sound, musical ed operetta. A questa variegata produzione con i Magnetic Fields vanno aggiunti i lavori targati Gothic Archies (l’EP del ’97 “The New Despair” ed il full length “The Tragic Treasury”, edito nel 2006), all’insegna di un sound decisamente più cupo e, per l’appunto, gotico, le uscite a nome Future Bible Heroes, un trio con Chris Ewen e Claudia Gonson (“Memories Of Love” ed “Eternal Youth”, rispettivamente del 1997 e del 2002, cui si aggiungono svariati EP), le realizzazioni in veste di compositore/produttore con i The 6ths (“Wasps’ Nests” e “Hyacinths and Thistles”, usciti nel 1995 e nel 2000) ed alcuni dischi a suo nome (la colonna sonora “Eban & Charley” del 2002 e “Showtunes”, una raccolta, risalente al 2006, di 26 canzoni per l’opera, prodotte dal direttore del Teatro Cinese Chen Shi-Zheng). Tutto questo lungo elenco serve giusto per dare un’idea della prolificità del personaggio e della varietà della sua produzione. E adesso veniamo a “Distortion”.
Uscito nel corso di gennaio, il disco rivela Merritt alle prese con 13 canzoni fatte di delicate melodie pop, talvolta di stampo marcatamente sixties, calate in un magma ribollente di chitarre sature e distorte. Il sound nel suo complesso è vicino all’opera degli shoegazer, ed in particolare ai Jesus And Mary Chain. L’abilità di Merritt come musicista e paroliere (i suoi testi sono sempre tra le cose migliori che la musica pop produca) è fuori discussione: canzoni come Three Way, California Girls, Please Stop Dancing, Too Drunk To Dream, I’ll Dream Alone e Zombie Boy rivelano indubbiamente un talento fuori dal comune. Il punto, però, è che alla lunga il mare di feedback e distorsioni che avvolge i pezzi finisce col dare al lavoro un’omogeneità che sconfina nella ripetitività. Per non parlare poi della lunghezza dei brani: va bene sforzarsi di condensare un contenuto lirico/melodico ricercato in poco tempo (i canonici due minuti e mezzo-tre della canzone pop classica), tuttavia la sensazione che si ha all’ascolto è che molti brani avrebbero avuto bisogno di più tempo per dispiegare al meglio le loro potenzialità.
Un lavoro riuscito a metà, insomma, interessante in quanto prova ulteriore dell’eclettismo e della voglia di sperimentare di Merritt, ma che lascia, alla fine, l’amaro in bocca per il senso di incompiutezza che trasmette.
Voto: 6
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