David Sylvian ‘Manafon’

(Samadhisound 2009)

David Sylvian appartiene a quella (non robusta, a dire il vero) stregua di musicisti la cui credibilità artistica non solo non è diminuita con il passare del tempo, ma è addirittura aumentata. Propugnatore con i Japan di un glam synth-pop intellettuale e dalle venature world, durante la sua carriera solista, iniziata nel 1984 con lo splendido “Brilliant Trees”, Sylvian si è addentrato in territori musicali sempre meno convenzionali, avvicinandosi all’avanguardia grazie a collaborazioni con artisti del calibro di Jon Hassel, Holger Czukay, Marc Ribot, Robert Fripp e Derek Bailey.
“Manafon” è, da questo punto di vista, uno dei lavori più radicali di Sylvian. Gli arrangiamenti estremamente scarni, le melodie liquide, rarefatte, e scelta di mettere la voce in primo piano ci permettono di considerare quest’ultima fatica del dandy inglese come la logica prosecuzione del percorso avviato con il precedente “Blemish”. Rintocchi di chitarra, sparuti interventi di contrabbasso, pianoforti inquietanti, rumorismi elettronici, archi, sassofoni free jazz intervallati da silenzi costituiscono la (disarticolata) struttura delle nove tracce del disco, in cui la parte da leone, come dicevamo prima, la fa il baritono vibrante di un Sylvian in grandissima forma.
L’estrema complessità delle composizioni, la loro struttura free form e la durata di alcuni di essi (The Greatest Living Englishman, con i suoi 10’ 55’’ è il pezzo più lungo della raccolta, ma diversi altri brani sono sopra i sei minuti) rendono l’ascolto di “Manafon” decisamente difficile. Vi assicuriamo, però, che la fatica sarà ampiamente ripagata.

Voto: 8

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