(Red Cat Records 2015)
C’era una volta la psichedelia. Erano i mitici anni ’60, anni in cui andavano di moda l’amore libero, i pidocchi, gli acidi, la guerra fredda, i libri di Aldous Huxley e un abbigliamento uomo-donna talmente ridicolo e coloratissimo da far rabbrividire il sobrissimo Divino Otelma. Per fortuna erano anni in cui se eri americano ed entravi in un negozio di dischi, e non eri un vecchio repubblicano, potevi finalmente evitare di doverti suicidare con l’ennesimo disco di Tony Bennet o Frank Sinatra e darti o alla British Invasion oppure ai connazionali Jimi Hendrix, The Jefferson Airplane, The Doors, The Velvet Underground e Grateful Dead. In omaggio davano anche una dose di mescalina.
Dunque c’era una volta la psichedelia, ma c’è ancora? No. O meglio, c’è una marea di gente più o meno valida musicalmente che le fa il verso con risultati altalenanti, gente tipo The Flaming Lips, The Mars Volta, Motorpsycho e Tame Impala. Proprio sulla scia di questi si inseriscono i fiorentini Finister, con il loro debutto discografico ‘Suburbs Of Mind’. Il problema è che già la scena neo-psichedelica sa di aria fritta, figuriamoci se proponi un disco che sembra voler solo citare, infilando qua e là, in maniera molto ruffiana, anche sfumature di Muse e King Crimson. Il risultato è pessimo, un’inutile insalata scondita di suoni. L’utilizzo di strumenti a fiato, di synth e chi più ne ha più ne metta, non aggiunge nulla al piattume del disco, anzi rende la situazione paradossale: si sarebbe potuto creare lo stesso piattume con un minor dispiego di mezzi e falsetti, che tra l’altro speravamo morti e sepolti assieme alla disco music. Ma soprattutto, dove accidenti sono le droghe? Non si può fare psichedelia senza viverla, come non si può essere punk solo con jeans strappati e capelli improponibili quando in garage si ha un SUV e papà che paga l’i-Phone. Infatti, l’idea di fondo che trasmette questo album è di un semplice svago musicale per piccoli borghesi, metter su una band che fa musica alternativa perché “fa figo” o “ti dà un tono”, regalando solo musica che sa di finto. In definitiva, manca il cuore, o, se c’è, allora non si sente proprio.
Una cosa però va detta, è un disco che all’ascoltatore giovane, con un background musicale che non va oltre gli anni “zero”, può sicuramente piacere, perché sa tanto di Indie, ed è questa la parola magica con cui orde di alternativi contemporanei e di hipsters si dilettano dalla mattina alla sera. Ergo, sono pronto a scommettere che le ragazzine alternative toscane saranno pronte a tirare le mutandine sul palco dei quattro ragazzi fiorentini sulle note della radiofonica ‘My Howl’, e questo per un artista è il riconoscimento più grande.
Se invece vi parte l’ormone ogni volta che pensate a Syd Barrett, allora evitate l’album in questione, perché non vi regalerebbe gioie neppure se aveste a disposizione tutte le droghe che Hunther S. Thompson si è tracannato mentre attraversava il deserto del Nevada nei mitici anni ’60. Buon ascolto.
Voto: 5
Davide Giustozzi