(Nemu Records 2016)
Nominare Robert Dick vuol dire parlare di un autentico mostro sacro del flauto, un fine conoscitore dello strumento da più angolazioni, cui piace scrutare al 50% il mondo della contemporanea quanto quello più out dell’improvvisata. Una carriera longeva pluriventennale consolidata da una folta discografia ricca di collaborazioni al fulmicotone (Mark Dresser, Gerry Hemingway, Thomas Buckner…) e da diversi studi scritti sul proprio benamato. Dunque sembrano far bene i tipi della Nemu Records a presentarcelo come “the most prominent of the generation of flutist-composers after World War 2 who extended the flute’s musical language by employing new techniques, such as multiphonics and key noises, to make sounds not previously considered musical…”.
Della pianista teutonica Ursel Schlicht scorgendo il curriculum attraverso la propria home page si percepisce che abbia pure lei compiuto sin’ora una carriera non difforme da quella del collega, e che mostri un interesse policromatico per l’aspetto compositivo e improvvisativo, e in particolare per un approccio parimenti convenzionale e non allo strumento, con il conseguente interesse per la manipolazione diretta del suono in forma acustica. In pratica la Schlicht è come se frullasse nelle sue corde l’insegnamento di John Cage, Morton Feldman e Cecil Taylor insieme alla scuola pianistica tutta rosa di Marylin Crispell e Irène Schweizer, e con una verve del tutto personale intrisa di padronanza tecnica e tanta fantasia.
I due si erano già incontrati nel 2004, e ne scaturì sempre per Nemu “Photosphere”, un lavoro che va considerato un po’ l’apripista di questo particolare quanto diretto progetto a due, dove Dick si destreggia tra la bellezza di otto flauti diversi (basso, piccolo, contrabbasso…) interagendo con una Schlicht concentrata a sgattaiolare tra la tastiera del pianoforte e le sue viscere, lavorando in maniera estemporanea sulle corde interne dello strumento, attraverso tecniche percussive e l’utilizzo di oggettistica varia. Sul web è possibile vedere alcune riprese dei loro live-set e vi assicuro che lo spettacolo visivo suona decisamente più esemplificativo di qualsiasi spiegazione. Dalla sua “The Galilean Moons” è un esteso viaggio eretto con dis-articolati quadretti armonici che sanno essere corposi quanto eterei, microtonali, adagiati appena a qualche soffio e sbuffo, recisi da affilati e sottili riverberi metallici che sul divenire si tingono di grezza materia dal taglio quasi noise (Tendrils); scale iridescenti del pianoforte interrotte dal gorgoglio circolare del fiato, alla soglia con l’ipnosi (Sic Bisquitus Disintegrat potrebbe piacere molto ad Evan Parker); architetture a tempo ed incastro dal retrogusto feldmaniano e zen (la bellissima A Lingering Scent of Eden). L’opera centrale, la title track, è divisa in 4 atti dove si evince a chiare note il lato più manipolatorio e onirico di entrambi, svelandosi come un viaggio spaziale pieno di suoni difficilmente riconducibili allo strumento da cui poi realmente prendono corpo, e in cui è facile scorgere anche piccoli inserti vocali emessi da Dick, i quali saranno ben più marcati, a ritmo di black-reading, durante tutto il peregrinare nevrotico di Dark Matter, dove il calore corporeo del free si farà sentire a chiare lettere.
La certezza in un disco così pieno di piacevole incertezza improv è che già da ora va ad inserirsi a pieno merito tra gli ascolti più intelligenti di tutto l’anno secondo il sottoscritto. Anche se il caldo bollente di questi giorni potrà non aiutare la vostra concentrazione, stringete i denti e sentite a più riprese “The Galilean Moons”, verrete col tempo ripagati da nuovi e continui colpi di scena sonori mai percepiti all’ascolto precedente. Che dire, un must!
Voto: 9
Sergio Eletto