(Room40 2016)
C’è il canto della terra non calpestata e dell’acqua che
scorre in solitudine, sempre e per sempre.
La voce di pietre che
rotolano una sull’altra sollevando sbuffi di polvere in assenza di
sguardi, il crepitar del fuoco che il fulmine accende e il soffio del
vento che l’alimenta.
In lontananza ben visibile, la ruggine che
assale un capannone abbandonato, lo scricchiolio del verde che
stritola e ingloba la struttura, poi arriva il mare, l’orizzonte si
amplia, notte e stelle in rapido avvicinamento.
Il cemento di un
tetto che esala un alito caldo mentre bolle di catrame
sbuffano.
Occhi a fessuretta rattrappiti nell’ombra, in lontananza
metalli in scuotimento simil rituale.
L’australiano (neozelandese
di nascita) Chris Abrahams, in escursione fuor dai Necks
incanta e strappa i piedi da terra.
Poca roba, piano, organo,
qualche centrato concretismo, grumi d’elettronica spigolosa.
Sdraiati
col cemento caldo sotto la schiena, dimentichi dei pochi che in basso
s’azzannano e sbranano in un balletto monotono senza speranza.
Nel
trapasso fra luce e buio stirare ogni muscolo e aprire le ali.
Una
goccia di sudore fragorosa si schianta al suolo mentre grilli
metallici intonano un canto sommesso.
Ricordi inquadrature di
Malick e reprimi il suono
della tua voce, poi salti nel vuoto.
Voto: 8
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