Ian Gindes ‘American Visions’


(Centaur 2016)

La fertilità della letteratura musicale classica per pianoforte solista negli Stati Uniti è ben testimoniata dalle numerose produzioni discografiche volte a rappresentarne tanto la pluralità di offerte quanto a sottolinearne le principali direttrici. Il presente Cd della Centuar ci offre una selezione di brani legati dal tema ricorrente del dialogo tra scrittura colta e idiomi popular che ha contraddistinto molta musica americana, non solo pianistica, del Novecento. A rendere unica e particolarmente interessante questa registrazione è tuttavia la scelta non banale dei brani, pur composti da nomi quanto mai celebri, e insieme la notevole sensibilità interpretativa dell’ottimo Ian Gindes. A partire dall’autore più rappresentato del Cd, l’icona della musica classica americana Aaron Copland, di cui solitamente si tende a privilegiare, per ciò che riguarda il suo repertorio pianistico, l’anima modernista evidente in opere come Piano Variations o la Piano Fantasy. Qui invece abbiamo l’occasione di ascoltare, insieme al bellissimo e sensuale Piano Blues No.3 che apre il Cd, la versione pianistica di Rodeo − composizione paradigmatica del Copland “populista” − in cui si stagliano con ancor maggiore nitidezza le armonie diatoniche, i motivi folk/country e i ritmi sincopati, che Copland, con la consueta parsimonia, sapientemente raccorda per raccontare le vicende di una cow-girl nell’America rurale. Analogo scenario è quello commentato dalla musica, ancor più essenziale ed emotivamente riservata, scritta per la colonna sonora del film “Our Town”. Più urbane e spigliate sono ovviamente le due celebri songs di George Gerswhin, qui proposte nello scintillante arrangiamento di Earl Wild. Non ho mai considerato (come taluni fanno) My Favourite Things un innocuo valzerino, la cui fama si deve esclusivamente alla versione che ne fece John Coltrane; l’esecuzione qui proposta (nell’arrangiamento virtuosistico di Stephen Hough) ce ne rivela una grazia insieme malinconica e ironica per cui va annoverata tra le gemme del duo Rodgers/Hammerstein. I brani più recenti (risalenti agli anni Duemila) sono a firma di Kris Becker, la cui fluida scrittura si rivela idiomatica per il pianoforte, in virtù di un andamento simil-improvvisativo permeato di una cantabilità tutt’altro che banale. Non è facile cimentarsi con una tale varietà di registri tecnici ed espressivi: Gindes ci riesce alla grande, e noi ascoltatori non possiamo che godere del risultato.

Voto: 9

Filippo Focosi

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