(ECM/Ducale 2019)
‘Nessuna violenza supera quella / che ha aspetti silenziosi e freddi’, recita un magnifico distico di Giuseppe Ungaretti, poeta ermetico per eccellenza, dotato di una capacità insuperabile di ricavare il massimo della potenza espressiva dal minimo delle parole e talvolta persino delle sillabe. Ecco, per certi versi questa massima (se così la si può definire senza cadere nella blasfemia, dato il carattere quasi sacrale della bellezza dei versi ungarettiani) si può applicare anche a ‘The Transitory Poems’, splendido disco del duo pianistico formato da Vijay Iyer e Craig Taborn, recentemente pubblicato dall’etichetta ECM per la quale, ciascuno come solista o con le proprie band, incidono da anni i due pianisti. Spesso silenziosa e fredda (ma in alcuni momenti anche tumultuosa e rovente, senza peraltro contraddizione o incoerenza) è infatti la musica prodotta dalle quattro mani e dai due pianoforti di questi straordinari interpreti del jazz (ma non solo: della musica, in generale) del nostro tempo, e una sinuosa, sinistra e strisciante atmosfera di violenza pervade l’intrecciarsi delle linee melodiche, o per meglio dire dei frammenti e brandelli di melodia, negli otto brani che compongono il disco. Come Ungaretti, anche Iyer e Taborn si rivelano capaci, nell’ermetismo della poetica adottata dal loro originale duo pianistico, di ricavare il massimo dal minimo, per così dire. È un disco, ‘The Transitory Poems’, che scaturisce dalla registrazione di un concerto dal vivo tenuto da Iyer e Taborn a Budapest il 12 marzo 2018 e che trae il suo titolo da un passaggio di un’intervista al compianto genio del free jazz e dell’improvvisazione radicale libera Cecil Taylor (‘We are, after all, just animals and we are a part of nature. […] We are the transitory poems. […] I think that we definitely go back to earth’). A Cecil Taylor è dedicato il settimo brano del disco, laddove ad altri due ‘visionary composer-performers’ (come li definiscono nelle ‘liner notes’ Iyer e Taborn), e cioè Muhal Richard Abrams e Geri Allen, sono rispettivamente dedicati il sesto e l’ottavo brano. Poemi della transitorietà, poemi dell’unicità e irripetibilità della performance e della musica ivi creata in modalità libera ma ben strutturata al contempo, poemi della capacità di ascoltarsi e inseguirsi musicalmente l’un l’altro sull’onda di ciò che l’evolversi e il costruirsi spontaneo della musica esige attimo dopo attimo, istante dopo istante, minuto dopo minuto, fino alla costituzione di una forma, quella di questo disco, che è effimera e caduca ma al contempo densa di significato proprio come l’esistenza umana nel suo insieme. Non è un ascolto facile, quello di ‘The Transitory Poems’; non è un ascolto che consenta al fruitore la distrazione e il disimpegno, ma è anzi un ascolto impegnativo e talvolta faticoso, il quale però ripaga ogni sforzo dell’orecchio e del comprendere con una ricchezza e un’originalità decisamente notevoli. Altra prova brillantemente superata per Iyer e Taborn, dunque, dopo quelle decisamente magnifiche dei loro ultimi dischi ‘Far From Over’ e ‘Daylight Ghosts’, già recensiti dal sottoscritto qui su Kathodik e parimenti promossi a pieni voti.
Voto: 8
Stefano Marino