David Torn ‘Sun of Goldfinger’

(ECM/Ducale Music 2019)

Il 2019 sembra essersi aperto come un buon anno per David Torn, chitarrista ‘d’avanguardia’ che si muove da sempre nei territori di un jazz di marcata impronta sperimentale e non timoroso di incrociare le strade dell’improvvisazione destrutturata, del rumorismo cacofonico o, all’opposto, della desertificazione sonora tendente alla musica ‘ambient’. Quest’anno, infatti, è stato possibile dapprima ritrovare finalmente un disco di Torn di molti anni fa ormai divenuto introvabile e per questo circondato parzialmente da un’aura di leggendarietà, ovvero ‘Cloud about Mercury’ del 1987 inciso su etichetta ECM con una band straordinaria che includeva la sezione ritmica dei King Crimson anni ’80 e ’90, ovvero Tony Levin al basso e al Chapman stick e Bill Bruford alla batteria (acustica ed elettronica) e alle percussioni, e un trombettista importante e anch’egli avvezzo alle sperimentazioni come Mark Isham. E poi, sempre quest’anno, è stato pubblicato, parimenti su etichetta ECM, il nuovo lavoro di David Torn, ‘Sun of Goldfinger’, firmato da Torn insieme a partner di grandissimo livello come Tim Berne al sax alto e Ches Smith alla batteria e alle percussioni (membri, a loro volta, di un’altra band responsabile di eccellenti lavori su etichetta ECM, ovvero degli Snakeoil), con l’aggiunta nel secondo brano del disco, Spartan, Before It Hit, del saggio e sapiente contributo strumentale di un altro fuoriclasse del jazz odierno, Craig Taborn al piano, degli altri due chitarristi Mike Baggetta e Ryan Ferreira (anch’egli membro degli Snakeoil con Berne e Smith), e finanche di un quartetto d’archi (Scorchio Quartet). Il disco si articola in tre parti, in tre lunghi brani di 22 minuti ciascuno intitolati rispettivamente Eye Meddle, Spartan, Before It Hit e Soften The Blow, e riesce nel non facile compito di produrre il massimo col minimo, come solo i grandi artisti sanno fare (si pensi, come caso forse insuperabile, alla poesia ermetica del Novecento: Celan, Montale e Ungaretti su tutti). Vale a dire, a partire da una formazione di soli tre musicisti (con l’eccezione dell’arricchimento sonoro, soprattutto timbrico, del succitato secondo brano), il collettivo responsabile di ‘Sun of Goldfinger’ si dimostra capace di lavorare in maniera al contempo olistica (mirando cioè al tutto, al risultato finale nel suo complesso, all’intero) e micrologica (prestando cioè la massima attenzione al minimo passaggio e al minimo dettaglio, foss’anche una singola nota di chitarra dissonante, ripetuta ossessivamente con lievi oscillazioni a livello di dinamica, a generare un senso di ordine e scompiglio contemporaneamente nell’ascoltatore), realizzando un prodotto di grande maturità e dotato di un autentico senso di completezza. La sperimentazione sonora, nelle mani di musicisti come Torn, Berne e Smith, non risulta mai gratuita, fine a se stessa o inconcludente. Pur non trattandosi di una musica ‘bella’ in un senso per noi usuale del termine, vale a dire melodiosa o armoniosa o gradevole o piacevole, essa può risultare ‘bella’ nel senso ad esempio del tradizionale concetto estetico del bello come ‘unità nella varietà’, e le si possono dunque applicare senza sforzo parole come quelle di ‘Brace’ dei C.S.I.: ‘Appare la bellezza mai assillante né oziosa / Languida quando è ora e forte e lieve e austera’. E, pur non trattandosi di composizioni caratterizzate da inizio, svolgimento e conclusione intesi in una maniera che possa dirsi in qualsiasi modo ‘tradizionale’, ciò non toglie che le tre grandi sezioni di cui si compone un lavoro come ‘Sun of Goldfinger’ restituiscano all’ascoltatore un notevole senso di sviluppo e di conclusività e anche di insostituibilità delle singole parti, come se il potenziale venir meno anche solo di un singolo suono rischiasse di esporre l’interezza del disco al pericolo della frantumazione della sua unità. È, quella di Torn in questo disco, una musica compatta e, dialetticamente, insieme frammentaria; una musica organica e talvolta ardente che, dialetticamente, insieme sfiora l’inorganico e talvolta non teme di avventurarsi nel ‘deserto di ghiaccio dell’astrazione’.

Voto: 10

Stefano Marino

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