Una, nessuna e centomila: Munsha racconta Munsha

Munsha by Anna Motterle

Italiana di nascita e berlinese d’adozione, Munsha è un’artista poliedrica: cantante, violoncellista, compositrice, performer, lavora e scrive per il teatro e non disdegna incursioni nella video arte. È difficile definirla secondo ruoli precisi o infilarla in un genere prestabilito: forte della sua formazione accademica e di un irriverente spirito punk, si muove con felina nonchalance tra generi, strumenti e media: la sua pratica artistica è multimediale nel senso più autentico della parola.
Presenza costante dei palcoscenici della capitale tedesca, è di casa nei locali off come in sedi più tradizionali, accompagnata del suo fido violoncello o da un set up elettronico. Come lei stessa avrà modo di approfondire nel corso di questa intervista, Munsha si muove in equilibrio – o forse in delicato squilibrio – su quattro assi: corpo e voce, musica e movimento.
Oltre che in scena e tra le note, la musicista berlinese è a suo agio anche nelle parole; per cui, senza ulteriori preamboli, le passo il microfono virtuale per una chiacchierata fiume sulla sua carriera artistica, il rapporto tra musica e corporeità e qualche osservazione su affinità e divergenze tra l’industria dello spettacolo in Italia e Germania.

Cominciamo da una nota biografica, partendo proprio dagli inizi della tua carriera. Studi pianoforte dall’età di 8 anni per poi iscriverti a canto e violoncello al Conservatorio di Salerno. Ti sei laureata in canto operistico e composizione multimediale e dopo aver continuato la tua formazione vocale a Milano ti sei trasferita a Berlino. Cosa ti ha spinto a questa scelta?

Il mio percorso è frutto di circostanze, incontri, coincidenze e, come credo per tanti, della conseguente crescita personale oltre che musicale. Negli anni mi sono rapportata con contesti e ambiti musicali differenti, suonando i generi più disparati e maneggiando diversi altri strumenti, come il basso elettrico, la fisarmonica, i tamburi a cornice; strumenti che, purtroppo, non hanno trovato una reale collocazione né logistica né temporale nella mia quotidianità. Questo “vagabondare” ha sicuramente determinato il mio modo di approcciarmi alla musica, anche da fruitore. Di fatto, se oggi sono musicista lo devo soprattutto a mia madre che, con una tenacia tutta femminile, ha saputo farmi appassionare a questa lingua fatta di segni e frequenze, nonostante la mia reticenza di bambina. Berlino (o per meglio dire, lasciare l’Italia) invece è stata una scelta quasi prevedibile per una persona curiosa e (cito) perennemente insoddisfatta, sempre alla ricerca di stimoli nuovi da vivere e raccontare. Molte altre metropoli europee si sono auto-escluse dalla mia scelta di vita per l’impossibilità di sperimentare se stessi senza dover scendere a compromessi, anche economici. Volevo continuare a vivere di musica e Berlino mi ha offerto questa chance; non con poche difficoltà, soprattutto agli inizi. Il mio approdo qui è stato un appuntamento al buio andato a buon fine: è una città che riesce sempre a sorprendermi e che, per il momento, è diventata casa. Chissà che dopodomani non decida però di sperimentarmi altrove…


Munsha live @Bruital Furore Festival, Amburgo 2019

La tua musica si muove tra sperimentazione elettronica, un’impronta new wave, improvvisazione di stampo free jazz e un’attitudine “punk”. Nella tua tecnica vocale e strumentale, inoltre, è evidente la tua formazione classica. Come concili tutte queste anime? Ti senti parte di una tradizione musicale? Quali sono state le tue influenze, o, in senso più ampio, che musica ha avuto un impatto sulla tua crescita musicale?

La tradizione è qualcosa che, in una certa misura, considero vincolante in assenza di un dovuto distacco: tende a generare gabbie nelle quali ci imprigiona volontariamente. Le influenze sono un altro paio di maniche. Sinceramente ho difficoltà però a individuare la musica o gli artisti che più di altri hanno influenzato la mia espressione; forse perché la lista è lunga. Ci sono dischi per esempio che non ascolto da tempo o ai quali non ho prestato eccessiva attenzione e che eppure, in qualche modo, si sono fatti strada nella mia memoria, lasciandosi metabolizzare e le cui scie emergono di tanto in tanto nella mia musica, come spore fungine. Del resto i miei ascolti sono eterogenei, anche per via della mia attività didattica. Tendenzialmente però evito quelli che enfatizzano l’umore del momento; il che è un’abitudine molto interessante e sorprendente, perché spesso riscopro i miei stati d’animo in sonorità apparentemente contrapposte.
Mi viene da sorridere mentre mi osservo dall’esterno, proprio ora nel rispondere a questa domanda, nella cucina di casa mia, con le mie gatte di Berlino Est, bevendo Château Saint-Estève e ascoltando le sequenze di Hildegard von Bingen: stasera sono euforica!
Provo comunque a nominarne un paio: Meredith Monk, Demetrio Stratos e Dead Can Dance sicuramente sono fra i primi ad avermi inciso a livello epidermico. Seguono Philip Glass, Arvo Pärt così come molti esponenti dell’avanguardia del dopoguerra e minimalismo. Aphex Twin, Alva Noto e Autechre fra i tanti che ispirano la sfera acustica delle mie produzioni in studio. Cocteau Twins e Einstürzende Neubauten invece sono la mera gaia melanconia. A questi si aggiungono Arthur Russell, Dai Fujikura, Josef Suk, Salvatore Sciarrino, Bobby McFerrin, Rameau e Nine Inch Nails.

Nel tuo “vagabondare” musicale, il violoncello è una costante, almeno nelle tue performance dal vivo. Domanda organologica: perché proprio questo strumento? Che ruolo svolge nel tuo processo compositivo?

Direi più che altro che è stato il violoncello a scegliere me ed è stato amore a prima vista, o meglio a primo ascolto. Ricordo che ero in attesa d’entrare in classe al Conservatorio di Salerno, dove già studiavo canto, e un suono al di là di una porta chiusa mi rapì. Non che non avessi mai sentito un violoncello solista prima d’allora ma, in quella precisa congiunzione astrale, toccò qualcosa in me che definirei contemplativo e al tempo stesso passionale. Quel giorno mi ripromisi di studiarlo e qualche mese dopo – nonostante, a detta del mio insegnante, fossi troppo vecchia per iniziare – avevo il mio primo violoncello.
Il suo ruolo nelle mie composizioni è invece ambiguo: produco tanto e spesso non c’è alcuna traccia di violoncello. Di sicuro si è instaurato un forte legame con la voce, che resta comunque il mio primo strumento e che gioca un ruolo di dominanza, sia in fase d’ideazione che di produzione. Sul palco invece il violoncello si fa di nuovo strada come una vera diva ma, ahimè, troppo spesso temporeggio e procrastino quando si tratta di registrare e pubblicare le mie sessioni dal vivo. È però nella mia To-Do List.

Concentriamoci allora sulle tue registrazioni. In riferimento alla tua discografia, potresti cercare di riassumere ciò che vuoi esprimere nei tuoi dischi?

Quello che compongo, produco o eseguo dal vivo ha molto di personale. Raramente – e generalmente nel caso di composizioni commissionate, come film, per esempio – mi astraggo da me stessa (che sia solo un’illusione?) e musico d’altro. Ho l’ossessiva abitudine d’avere sempre un taccuino con me e senza il quale mi percepisco nuda. Cammino, osservo, scrivo. Viaggio, rifletto e scrivo. Mi sveglio e annoto i miei sogni. Insomma, scrivo e tanto anche. Da quando ho cambiato casa ho iniziato ad appuntare pensieri o idee addirittura sulle piastrelle della cucina. Tutto queste annotazioni devono pur trovare sbocco e poiché sono una persona di poche/medie parole, la musica diventa mia portavoce. Nonostante le mie sonorità conducano ad atmosfere tendenzialmente cupe e laceranti, cerco però con cautela di non assoggettare le mie interazioni a concetti o messaggi precisi e riconoscibili, bensì di lasciare spazio e tempo a chi ascolta, per frugare dentro la mia musica e scovarci qualcosa di personale. Uno dei motivi per cui, per esempio, in nessun brano di ’2 GATES’ canto un testo di senso compiuto.

Oltre che musicista, sei molto attiva nel teatro. Sulla tua produzione teatrale voglio soffermarmi più avanti, mentre ora vorrei chiederti quale ruolo gioca il mettersi in scena nella tua pratica musicale. Cerco di spiegarmi meglio: ho assistito a molti tuoi concerti e oltre all’aspetto squisitamente musicale, la tua presenza scenica e la tua corporeità si percepiscono in modo molto forte. Immagino anche nell’improvvisazione come ascolto e relazione con il pubblico e con gli altri musicisti. In che senso le tue esperienze con il teatro influenzano le tue performances?

Non penso sia il teatro ad influenzare la mia presenza scenica, ma piuttosto che esso sia un’automatica conseguenza della mia consapevolezza corporea. Provo a spiegarmi. Credo che la presenza scenica di cui parli sia figlia della voce e del mio lavoro su di essa. Gli anni di studio e poi, dal 2000, la mia esperienza come insegnante di canto hanno enfatizzato un rapporto fra espressione vocale e movimento, necessario anche a fini didattici. Talvolta, per esempio, durante le mie lezioni si danza per liberare la laringe da costrizioni, o si canta a testa in giù per metabolizzare l’atto respiratorio diaframmatico. Intendo corpo e voce, musica e movimento come elementi di un’unica spinta esplosiva.
Di fondo c’è anche un altro fattore non marginale, ovvero la volontà di non ridurre l’atto performativo a un mero livello sonoro bensì di espanderlo e arricchirlo dei significati e messaggi su cui si basa e che si celano in esso. Questo perché nelle mie performances metto in gioco una dimensione privata piuttosto che uno scenario di osservazione e riflessione, i quali mi impongono istintivamente una corporeità, oserei direi, “animalesca”. Personalmente trovo complicato lo scindere l’espressione razionale – intesa, in questo caso, come partitura – dalle pulsioni innate, considerando poi il mio temperamento sanguigno ed emozionale. Per me è un po’ come voler illustrare un concetto eludendo la parola: servono altri media.
Come poi il teatro abbia preso piede nella mia attività lavorativa – premetto, non sono un’attrice – sorprende me, ancora oggi. Le mie prime esperienze in questo ambito sono nate un po’ per gioco, annettendo stralci letterari a concerti; e poi costumi, scenografie elementari e coreografie. Da questo al teatro, il passo è stato breve. Ma se non avessi avuto dei meravigliosi compagni di viaggio, non credo avrei mai trovato il coraggio di formulare una frase di senso compiuto in scena.

Munsha @Bob Rutman Tribute, Jazzlab 2021. Foto di Anna Motterle

A proposito di compagni di viaggio: negli anni hai condiviso il palco con tantissimi artisti: per citarne solo alcuni, Bob Rutman, Martina Bertoni e Jochen Arbeit degli Einstürzende Neubauten. Come nascono le tue collaborazioni e che importanza hanno per la tua pratica artistica?

Inutile dire che la condivisione del palco è un fattore di tale accrescimento che è quasi diventata una pratica essenziale. Non c’è una “regola” rispetto al come le collaborazioni nascano, ma esse si generano in e da molteplici scenari. Adoro sperimentare con altri musicisti e reinventarmi in nuove forme sonore e ho suonato con musicisti di grande gusto ed esperienza, dai quali ho imparato tanto. Penso che lo scambio, in tutte le sue forme, sia il principio fondamentale per non accantonare se stessi, sia in scena che in studio o fra le pareti di una sala prove, che si tratti di musica o di altre forme espressive. Con ciò intendo il non dare per scontato chi e cosa facciamo, pretendendo di conoscersi, esaminando il cammino percorso e quello da compiere, senza mai indagare il presente. In generale posso dire che alcune collaborazioni sono del tutto fortuite, altre fortunate. Più che limitate meramente all’ambito tecnico-musicale, preferisco quando queste si instaurano empaticamente: episodi rari, in relazione alla maggioranza dei casi, dai quali tuttavia sono nate anche grandi amicizie.
Al tempo stesso, il lavoro “in solitaria” mi è vitale, come lo è il silenzio, per imparare a non ripetersi. Insomma sono le facce della stessa medaglia: fattori ben distinti e determinanti, come il dialogo e la riflessione intima.


Video trailer di ALICES GESCHWISTER

Torniamo a teatro. Nel 2021 il tuo primo spettacolo teatrale, ALICES GESCHWISTER, ha debuttato al teatro Delphi di Berlino. Scritto, diretto e musicato da te, lo spettacolo prende ispirazione da ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’ per raccontare il mondo, anzi, i mondi interiori di una ragazza schizofrenica – o forse solo troppo fantasiosa? – ricoverata in un’ospedale psichiatrico. Cosa ti ha spinto ad affrontare questo tema?

ALICES GESCHWISTER è stato un progetto ambizioso, al quale ho lavorato tanto nonostante le difficoltà legate alla pandemia e a un senso di sconforto generalizzato. Sono però più che felice di averlo portato a casa, non tanto per me ma per quell’umanità (quella che chiamano d’internati, di matti e squilibrati) che ha dato vita e indirizzato il progetto. La ricerca e il lavoro sul materiale documentaristico è iniziato molti anni fa, ancor prima di trasferirmi a Berlino, quando ho sentito la necessità di urlare il mio disappunto; la necessità di prendere una posizione contro un giudizio sommario e contagioso, che etichetta coloro che non entrano nell’inscatolamento canonico della nostra società. Ma chi decide quali sono la scatole “buone” e “cattive”? Sappiamo benissimo che la perfezione non esiste, ma esiste solo l’abile mascheramento dei difetti.
In ALICES GESCHWISTER non ho voluto raccontare né la storia della malattia mentale né di un “soggetto psicopatico” nello specifico, bensì di come la CURA sia il problema concreto: costringere un individuo a diventare qualcun altro, in nome della scienza, dell’etica, della morale. Per cosa? Per sapere stare tutti bene ordinati e in fila? Per smettere di vedere il mondo a colori? Come se gli individui fossero paragonabili a lampade malfunzionanti.
’Alice nel paese delle meraviglie’ e anche la controversa figura di Lewis Carroll hanno funto in maniera egregia da canovaccio alla produzione: del resto le bizzarre avventure raccontate nel libro e che galvanizzano adulti e bambini sono nel mondo reale qualcosa da scongiurare e correggere.
La mia non è una critica indiscriminata alla psichiatria, ma all’abuso di essa. Il materiale che ho raccolto, e che copre un lasso di tempo molto ampio, parla di bambini problematici ai margini di una società incentrata sul guadagno e sul denaro. Parla di vedove che, forse in maniera un po’ troppo progressista per l’epoca, hanno cercato di nuovo l’amore nonostante il veto dei familiari; parla di ragazzine stuprate dai datori di lavoro, le quali hanno avuto il coraggio di denunciare; parla di orfani e di soldati. ALICES GESCHWISTER parla di soggetti con patologie neurologiche il cui luogo di cura non sarebbe dovuto essere un manicomio. O addirittura di casi di TSO (trattamento sanitario obbligatorio) esercitati su individui i quali si sono pubblicamente e coloritamente dichiarati scettici alle restrizioni anti COVID-19, proprio durante il primo severo lockdown italiano. Sono questi i “matti”?
Ho voluto raccontare di coloro a cui è stato negato l’equilibrio, tra gli smottamenti generati da altri, o da altro, e che sono scivolati una volta di troppo. E in ogni caso ritengo che ci sia una bellezza inafferrabile nello squilibrio, che è ciò che ci distingue gli uni dagli altri. Penso, tra l’altro, che non ci sia media migliore che l’arte per puntare un riflettore su temi spinosi ed elusi.

I temi forti infatti non ti spaventano, come nella pièce ‘Mädchenorchester’, basata sulle testimonianze dei membri dell’Orchestra femminile di Auschwitz. Ne hai curato la direzione musicale, ri-arrangiando Lieder e sinfonie dell’epoca e componendo una colonna sonora ad hoc per orchestra ed elettronica. Puoi raccontarci qualcosa di più?

Aver composto le musiche per ‘MÄDCHENORCHESTER’ ed aver lavorato con un team non solo numerosissimo, ma eccezionale è stata un’ esperienza significativa e appagante, così come il processo compositivo, tramutatosi in un viaggio nel profondo.
La musica di ‘MÄDCHENORCHESTER’ infatti è ideata come elemento narrativo a diversi livelli in cui la storia e il presente, l’esperienza interiore ed esteriore, così come i sentimenti dei personaggi storici e quelli degli artisti nella produzione si incontrano. Mentre i titoli classici – come fatti storici – rappresentano l’esterno oggettivo delle situazioni rappresentate, le mie composizioni per orchestra e la musica elettronica elaborano i sentimenti repressi delle musiciste e la loro percezione della realtà disumana del campo di concentramento di Auschwitz, in cui hanno dovuto suonare.
Ho voluto usare uno spettro che va dal “drone” al pianoforte preparato e agli strumenti analogici processati, per trasmettere sonoramente la fragilità dell’esistenza delle artiste nel blocco 12. A queste sonorità si affiancano composizioni per l’orchestra, ibridi tra musica orchestrale ed elettronica e pezzi interamente elettronici: così la musica non solo assume un ruolo su un differente livello narrativo, ma traspone in qualche modo anche la riflessione e il commento da parte del team artistico.
Gran parte delle mie composizioni tendono a incarnare gli stati interiori delle donne dell’orchestra, per poter descrivere il destino dell’ensemble. Mi sono voluta mettere in gioco sperimentando con elementi semplici e oggetti di uso comune, come in Der fallende Faden, un pezzo sinfonico per ferri da maglia, in cui l’espressione d’impotenza, stasi e disperazione delle donne è completamente consegnata alla musica, ancora una volta. La musica accompagna la disintegrazione dell’orchestra tramite atonalità ed extended techniques, ma racconta anche l’esultanza durante una passeggiata fuori dal campo e del tutto inaspettata in Weit weg vom Gebell, scritto per orchestra e sintetizzatore analogico monofonico. A questo, come accennavo prima, si incorporano i nostri commenti come artisti del presente, come in Wolkenfamilie (brano sul testo di Susanne Chrudina) o il brano finale per orchestra e live electronics, in cui ho voluto esprimere la fede nel potere della musica e dell’arte.


Il video di Wolkenfamilie dall’album MÄDCHENORCHESTER

Guardiamo al tuo futuro prossimo con una domanda di rito: hai qualche progetto in cantiere o qualche obiettivo professionale che ti prefiggi di raggiungere?

Progetti in cantiere ne ho sempre tanti. Al momento sto lavorando a MOONX, una sequenza di 12 performances prevalentemente vocali incentrate sulla spirale aurea di Fibonacci e una serie di ulteriori analisi numeriche. “MOONX i” ha debuttato proprio l’8 di gennaio di quest’anno, a Berlino.
Oltre all’album ‘MÄDCHENORCHESTER’, nel 2022 è prevista anche l’uscita della colonna sonora di ALICES GESCHWISTER, che sarà preceduta dalla condivisione del video dello spettacolo a scadenze programmate (mensilmente, dal 4 al 7). E poi ci sono tanti sogni nel cassetto o la famosa To-Do List di cui sopra.
Oltre alla numerose collaborazioni, sia con musicisti berlinesi che con artisti ospiti, ho in cantiere una nuova release con annesso live per voce, violoncello ed elettronica, nella quale convergere l’impostazione impro-noise pura con la forma canzone, seppur sperimentale.
Tutto ciò si somma ai progetti già in corso, così come alle produzioni con gli Spreeagenten, compagnia teatrale berlinese di cui faccio parte. Questi ultimi mesi poi hanno portato una ventata di aria fresca e tanti stimoli; ultime per esempio, la collaborazione con i Il Wedding Kollektiv, i quali mi hanno affidato uno splendido brano da remixare e lo scoring del film “Totenschiff”, tratto da un libro di B. Travis, che è attualmente in fase di missaggio.
In realtà, se faccio i conti con la quantità di progetti in vista, con una pianificazione realistica c’è da produrre per i prossimi 3 anni.


MOONX i Murmur Mayhem @Multiversal #113, Berlino

Per quanto riguarda invece in senso più ampio il futuro dell’industria musicale, gravemente danneggiata dalla pandemia, auspichi un cambiamento di prospettiva (da parte delle istituzioni e dei “consumatori”)? Hai qualche suggerimento a riguardo?

Ti riferisci alla carenza di concerti e di conseguenza alla crisi degli addetti ai lavori del settore? Devo fare una distinzione – purtroppo – fra l’Italia e la Germania, dove – nonostante le restrizioni e la cancellazione di eventi culturali – lo Stato mette a disposizione appositi supporti economici per artisti ufficialmente registrati come tali, in aggiunta ai finanziamenti e alle borse di studio di default.
In Italia, a quanto apprendo, solo oggi il Governo si accorge – con un emendamento ancora da attuare – degli oltre 320mila posti di lavoro del settore spettacolo messi in crisi da questi due anni di pandemia, prendendo però in considerazione prevalentemente coloro che calcano illustri scene. Ma il comparto della musica dal vivo, degli eventi come del cinema, è molto più ampio e ingloba lavoratori autonomi e “a progetto”, come tecnici del suono e delle luci, backliners, autisti e trasportatori, scenografi, sarti, truccatori, montatori di palco e così via, ai quali si aggiunge il settore logistico, organizzativo, di catering… C’é una categoria di lavoratori dimenticata perché non esplicitamente visibile, sebbene imprescindibile: i numeri del 2020 riferiscono di perdite pari al 95% del mercato, di oltre 570.000 lavoratori a rischio e di una intera industria in ginocchio, come se l’arte non fosse un lavoro a tutti gli effetti. Inutile dire che ci vorrebbe un cambiamento radicale sul piano politico, affinché la popolazione tutta e senza eccezioni sia rappresentata.
Analizzando invece il lato puramente creativo, non penso che l’industria musicale in generale sia stata così danneggiata dalla pandemia. Solo se si considera la quantità di releases indipendenti che sono state prodotte proprio in periodo di lockdown, verrebbe da dire il contrario. Artisticamente è stato un periodo proficuo, in verità. Qui il “danno” si insidia da tempo, a parer mio: si sta perdendo il gusto del “voler scoprire” e del “lasciarsi sorprendere”, sia da parte dei distributori che dei fruitori, rispetto a una moltitudine di artisti più che validi e innovatori. Non mi riferisco al mainstream, ma più a una pigrizia radicata, per cui ci sta bene ciò che abbiamo già, anche se digerito più e più volte.
Si è perso persino il gusto all’ascolto come atto fisico, offendendo tra l’altro il lavoro dei tecnici di studio, già solo fruendo della musica dagli altoparlanti del cellulare (rabbrividisco).
Siamo indolenti, irrispettosi, apatici: attitudine che si può transumare (termine ad hoc) in differenti altri contesti, a pensarci bene.

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